I giornali sono pieni di “notizie” su un dossieraggio avvenuto nei paraggi della “Direzione nazionale antimafia”. Confesso che non ho capito se ci sono reati, se ci sono indagati con avvisi di garanzia, se è in corso una indagine, se esiste ancora il “segreto istruttorio”. Non capisco perché ci sono riunioni del Copasir, delle commissioni parlamentari: tutto in piazza, tranne che non sappiamo perché e chi aveva ordinato indagini su migliaia di persone e a chi erano passati i risultati di queste indagini. Scrive Mattia Feltri su “La Stampa” (21 marzo 2024) un pezzo dal titolo “L’arco di trionfo”:
“C’erano una volta un tenente della Finanza applicato alla Direzione nazionale antimafia, Pasquale Striano, un sostituto procuratore della medesima Direzione, Antonio Laudati, e il loro ex grande capo, Federico Cafiero De Raho, nel frattempo eletto deputato coi Cinque stelle.
Si scoprì che il tenente Striano aveva recuperato dai database, e forse diffuso, migliaia di notizie che non andavano né recuperate né diffuse. Ho fatto soltanto quello che mi hanno detto i magistrati, disse Striano, e parve riferirsi in particolare al pm Laudati. Tutte le mie attività sono avvenute sotto il controllo del procuratore nazionale, disse Laudati, e parve riferirsi in particolare a De Raho. Il quale replicò: non ne so nulla, di questa storia sono una vittima. Quindi – se s’è capito bene – Striano dice è colpa di Laudati, Laudati dice è colpa di De Raho, De Raho dice è colpa di Laudati e Striano.
Inebriante. Ma mentre il primo e il secondo, in omaggio a una lunga tradizione, scaricano sul loro superiore, il terzo – tradizione più recente, di matrice italiana e molto in voga nella magistratura – scarica sui cari inferiori. Cioè, se la procura antimafia arresta il tal boss o sgomina la tal cosca, il procuratore si presenta in conferenza stampa come sotto l’arco di trionfo. Se invece la procura la fa sporca, il procuratore non ne sa nulla. Una vittima. Che è magnifico in capo a trent’anni in cui di questo e quello s’è detto che non potevano non sapere. Invece talvolta si può non sapere, e si può persino non portare la responsabilità del cattivo funzionamento dell’ufficio di cui si porta la responsabilità.”
Ora, nel mentre c’è questa strana vicenda su tutti i giornali e sui mezzi di comunicazione, ecco che scoppia il “caso Bari”, a poche settimane dalle elezioni, e già il periodo e il metodo dovrebbero sollevare qualche dubbio sullo stato della democrazia in Italia. Comunque andrà, per sciogliere il Consiglio Comunale di Bari, ci vogliono ben più di tre mesi e intanto l’effetto mediatico, che alimenta il sospetto sulla amministrazione di centrosinistra, è stato alimentato a piene mani. Ma la vicenda, finalmente, solleva qualche dubbio sul metodo e le procedure per lo scioglimento dei Consigli Comunali, eletti dai cittadini. Anche qui mi avvalgo dell’articolo di Gian Domenico Caiazza su “Il Riformista” (22 marzo 2024) che coglie appieno un altro elemento, incominciando dal titolo ”Bari, l’Armageddon dell’Antimafia che mette in crisi la democrazia”:
“Ed ecco che, puntuale, esplode l’Armageddon dell’Antimafia, e dell’antimafiosità. Lo scenario è il Comune di Bari; l’innesco è una indagine della Procura locale con molti arresti ed alcune ipotesi di voto di scambio; l’esplosione è la nomina da parte del Ministro degli Interni della Commissione di accesso prevista dalla legge, volta ad accertare se dai fatti oggetto di indagine possano risultare condizionamenti amministrativi da parte della criminalità organizzata, con eventuale, conseguente scioglimento del Comune.
La procedura – dicono governo e organi di stampa del centrodestra – è quella normalmente seguita in decine e decine di altre procedure adottate in questi anni, culminate spesso – ma non sempre – nel commissariamento di Comuni di ogni colore politico.
Nossignore, replicano compatti il Sindaco, l’intero centrosinistra ed i media che ne sono l’espressione, qui l’indagine non avrebbe fornito alcun elemento idoneo anche solo a sospettare che quelle vicende di voto di scambio abbiano potuto incidere sul governo della città, che è invece medaglia d’oro dell’antimafia. Dunque, l’iniziativa del Ministro Piantedosi è ispirata da bieche speculazioni elettorali, in una città dove il centrodestra è candidato alla sconfitta.
Il potere del Viminale
Io mi auguro si comprenda – ma non ne sono certo – come la gravità della vicenda prescinda dal merito, in ordine al quale non ho alcun elemento per poter esprimere una opinione seria, e mi chiedo chi altri lo abbia tra coloro che sbraitano in queste ore, da una parte o dall’altra.
Sarebbe invece il caso di riflettere sui danni catastrofici che inesorabilmente vengono inferti all’ordinato svolgimento della vita democratica dai poteri immensi, ed ancor più dalla loro sacrale incensurabilità, che in nome dell’antimafia sono stati consegnati ad alcune istituzioni. Penso appunto al potere di scioglimento di amministrazioni democraticamente elette affidate al Ministro degli Interni, o al potere davvero incontrollabile affidato ai Prefetti di interdire attività imprenditoriali o economiche (le c.d. interdittive antimafia).
Le valutazioni su base indiziaria accolte come dogma
Sono poteri enormi, ed anzi abnormi, per due chiarissime ragioni. La prima è che sono prevalentemente fondati non su evidenze obiettive ma su valutazioni prognostiche formulate su base indiziaria, in modo assai difficilmente sindacabile (TAR e Consiglio di Stato, numeri alla mano, se ne guardano bene). La seconda, assolutamente decisiva, è che esse sono accompagnate da quell’aura quasi sacrale e perciò intangibile della virtuosità antimafiosa, che – come un dogma di fede – è impensabile mettere in discussione. Chi avesse da ridire sullo scioglimento di un Comune per mafia, o sulla interdizione di una attività imprenditoriale per le medesime ragioni, si troverebbe immediatamente ad indossare suo malgrado le vesti del fiancheggiatore, del nemico della legalità.
Abbiamo costruito, intorno ad una questione tragicamente e drammaticamente seria come la pervasività delle organizzazioni criminali nella nostra vita sociale, una retorica poderosa, una narrazione incontrovertibile ed un potere – quello dell’Antimafia – talmente formidabile ed intangibile, da essere naturalmente destinato, prima o poi, a deflagrare in modo rovinoso; e questa vicenda barese si candida ad esserne la più vivida conferma.
Garantismo à la carte
Ora come si fa a distinguere? Con quali argomenti, con quale credibilità, agli occhi di una opinione pubblica addestrata a valutare in modo insindacabilmente positivo e virtuoso qualunque atto autoritativo assunto in nome della lotta alla mafia? Naturalmente, questo spettacolo rovinoso vale, come rovescio della medaglia, anche per il fronte del “garantismo” à la carte, che si invoca per gli amici e si dimentica per i nemici. Quello che sta andando in scena a Bari in queste ore, e proseguirà a lungo e con esiti non facilmente prevedibili ma comunque disastrosi per la vita democratica, non è dunque – come potrebbe sembrare – uno spettacolo a parti invertite, con la sinistra improvvisamente vittima e la destra carnefice nello scontro su chi sia più virtuosamente antimafioso, tra gli sghignazzi governativi e le lacrime del sindaco.
Ma è l’antico, triste avanspettacolo del trasformismo, della declinazione dei massimi princìpi ad uso e consumo di una fazione contro l’altra. È lo spettacolo sempre più insopportabile della mancanza di una cultura autenticamente liberale che, in questo Paese, continua ad essere patrimonio e virtù di pochi, e che invece sarebbe salvifica, come l’aria che respiriamo.”
“La colpa, caro Bruto, non sta nelle nostre stelle, ma in noi stessi” “Buona notte, e buona fortuna”
Luigi Corbani
(venerdì 22 marzo 2024)