Un articolo di Enzo Cheli su “la Stampa” del 28 febbraio 2024.
Da vecchio simpatizzante di sinistra confesso che vivo con qualche disagio il clima culturale della fase che stiamo attraversando. Qualcuno mi dirà: è la democrazia, bellezza. È vero e questo spiega il fatto che la destra stia oggi utilizzando gli strumenti propri della democrazia per sostituire il suo bagaglio culturale al bagaglio culturale di una sinistra che appare in stato di affanno proprio nell’azione di aggiornamento delle sue tradizioni culturali.
Il discorso riguarda in primo luogo la Costituzione che, con i suoi principi e i suoi valori, è stata sinora (e dovrebbe restare in futuro) la base della convivenza civile del nostro paese.
Una Costituzione la nostra che non è certo “la più bella del mondo”, ma che è stata e resta una buona Costituzione, tecnicamente ben costruita nei primi anni del dopoguerra su una piattaforma politica dichiaratamente antifascista.
Si tratta di una Costituzione che, al di là della sua origine, ha svolto efficacemente per un lungo arco di tempo la sua funzione di strumento di unificazione di una società complessa e disomogenea qual è la nostra, mentre oggi si tende sempre più a pensare, e non solo a destra, che la cultura che l’ha inspirata appartenga al passato per cui sarebbe giusto avviare un suo rinnovamento profondo.
Anche questo è vero, ma solo in parte. È vero per quanto riguarda la dimensione europea ed il suo diritto fondato sui Trattati che si è venuto sempre più a intrecciare con il nostro diritto nazionale.
Non è vero se si pensa al quadro delle nostre libertà che la Costituzione, con una visione decisamente “presbite”, venne a costruire nel lontano 1947 come base di uno Stato costituzionale e di una democrazia rappresentativa a impianto pluralista e garantista dove la maggioranza viene investita dell’esercizio legittimo della sovranità popolare “nelle forme e nei limiti” di una Costituzione saldamente presidiata da organi imparziali di garanzia.
Questa visione che la Costituente seguì con molta chiarezza condusse a legare la prima parte dell’impianto costituzionale, dedicata alle libertà ed ai doveri di cittadinanza, con la seconda parte, dedicata alla forma di governo. E proprio in questa connessione stretta tra le due parti si pone il nucleo intangibile e qualificante del nostro assetto repubblicano: un nucleo che oggi rischia di essere colpito e stravolto da un progetto anomalo di un “premierato” che, attraverso l’elezione popolare del Presidente del Consiglio, tende nella sostanza a rovesciare, nel quadro della nostra democrazia rappresentativa, il rapporto di dipendenza che lega il Governo, espressione della maggioranza, al Parlamento, espressione dell’intera comunità nazionale, riducendo al tempo stesso il ruolo di garante affidato al Capo dello Stato.
La riforma che questo progetto promuove, come è già stato ampiamente rilevato sia in sede politica che scientifica, incide, dunque, negativamente non soltanto su consolidati principi di diritto costituzionale, ma anche sulle basi della cultura istituzionale che ha ispirato la nostra forma repubblicana. Forma in cui – come incisivamente rilevava Meuccio Ruini quando presentava all’Assemblea costituente il progetto di Costituzione predisposto dalla Commissione dei 75 – «vi è un punto che non si deve mai perdere di vista in nessun momento, in nessun articolo della Costituzione: il pericolo di aprire l’adito a regimi autoritari o antidemocratici», pericolo che aveva condotto la Commissione ad evitare «il primato dell’esecutivo, che ebbe nel fascismo l’espressione più spinta».
Superata ormai l’originaria contrapposizione tra fascismo e antifascismo non risultano pertanto superati i principi che furono posti dalla Costituente a fondamento di una Repubblica dove il Parlamento è il perno del sistema e dove la Costituzione viene sottratta alla disponibilità della maggioranza. Questo non esclude che anche il “premierato”, pur nella forma ambigua promossa da questo Governo,
abbia una sua base culturale, ancorché opposta a quella che ha guidato sinora la nostra vita istituzionale. Ma si tratta di una base che storicamente non ha mai dato buoni frutti favorendo, con la nascita di una “democrazia del capo”, una prospettiva che, se non appare realistica nell’attuale contesto politico italiano, resta pur sempre rischiosa sulle lunghe distanze cui le Costituzioni devono guardare e, pertanto, da evitare.
Enzo Cheli
La Stampa 28 febbraio 2024