Se violi la legge, lo Stato ti bastona. E quando è lo Stato a violare le proprie stesse leggi? Quando non rispetta un termine, un vincolo, un limite di legge? Anche in questo caso il bastone ci cade sulla testa. Perché s’incrina il rapporto di fiducia tra i cittadini e le loro istituzioni, perché in ultimo ci sentiamo buggerati.
«Principio dell’affidamento», lo definisce la Consulta in centinaia di decisioni. E sono infatti innumerevoli le offese alla legalità commesse dal custode della legalità.
Ecco qualche esempio, pescando fra gli episodi più recenti.
Primo: le prossime europee. Il decreto Elezioni – approvato a fine gennaio dal Consiglio dei ministri e appena convertito dal Parlamento – ospita una raffica di provvedimenti. Voto di sabato e domenica, per la prima volta in questo tipo di consultazioni; accorpamento delle elezioni amministrative con quelle europee; dimezzamento o esenzione dalla raccolta delle firme per la presentazione delle liste; voto a distanza per gli studenti fuori sede. Bene, bravi, bis.
Peccato tuttavia che una norma perentoria (l’articolo 15 della legge n. 400 del 1988, dove si stabiliscono le regole dell’attività governativa) vieti i decreti legge in materia elettorale. Per quale ragione? Perché altrimenti l’esecutivo di turno potrebbe approfittarne per piegare i risultati a suo vantaggio, alla vigilia della competizione. Dunque una norma di garanzia, violata nel silenzio dei garanti.
Secondo: i giudici costituzionali. Sono 15, dice la Costituzione; invece alla Consulta lavorano in 14. Ai primi di novembre è scaduta Silvana Sciarra, ma il Parlamento non l’ha sostituita. Mentre Giorgia Meloni, nella conferenza stampa del 4 gennaio, ha rinviato la pratica a fine anno, quando scadranno altri tre giudici.
Nel frattempo alla Consulta aspettano Godot, per usare le parole del suo presidente. Anche se una legge costituzionale (n. 2 del 1967) prescrive che ogni giudice venga rimpiazzato «entro un mese dalla vacanza».
Viceversa i mesi passano, i garanti tacciono, e in conclusione lo Stato si mette sotto i tacchi le leggi dello Stato.
Terzo: la legge di bilancio. Anche qui una storia di scadenze scadute, di date postdatate. Fino al 2009 la presentazione del disegno di legge in Parlamento, da parte del governo, era fissata entro il 30 settembre, e veniva rispettata. Poi fu portata al 15 ottobre, e cominciarono i ritardi.
Dal 2016 è stata ulteriormente spostata al 20 ottobre, ma nessun governo ne ha mai tenuto conto. Quello in carica ha licenziato la sua prima legge di bilancio il 21 novembre 2022, la seconda il 30 ottobre 2023.
Domanda: e se fosse il cittadino a saldare in ritardo una contravvenzione? Pagherebbe gli interessi di mora.
Invece lo Stato italiano incassa, senza pagare dazio quando scassa.
Potremmo continuare a lungo quest’elenco di fatti e di misfatti.
Potremmo per esempio aggiungervi la denuncia della famiglia Regeni, che nel gennaio 2021 ha presentato un esposto contro la vendita di fregate militari all’Egitto: la legge n. 185 del 1990 vieta infatti l’export bellico a Paesi che non rispettano i diritti umani.
Oppure potremmo mettere in fila i 18 condoni – uno per ogni mese del governo Meloni – che smentiscono le leggi fiscali preesistenti, con buona pace di chi le aveva osservate.
D’altronde le norme retroattive, stabilendo oggi le regole di ieri, costituiscono l’ennesimo attentato al principio di legalità. Tanto più che in Italia si qualificano, ipocritamente, come leggi d’interpretazione «autentica», per conseguire effetti retroattivi senza dichiararlo. Furono appena 6 nei primi quarant’anni del Regno; ne sono state approvate 150, nei primi quarant’anni della Repubblica.
Muove da qui il nostro malcontento. Da un potere pubblico che reclama obbedienza alle sue leggi, disobbedendo ai propri obblighi di legge. Tuttavia la lealtà dev’essere reciproca, non un binario a senso unico.
E d’altronde non è affatto fortuita l’assonanza tra “leale” e “legale”. Giacché la legalità sleale diventa una sopraffazione, diceva Pericle in un dialogo che ci ha trasmesso Senofonte. Ma Pericle è morto, e neppure noi stiamo troppo bene.
Michele Ainis
“Se la legalità diventa illegalità”
da “Repubblica” 28 marzo 2024