La scelta della copertina è già emblematica del libro: il disegno del volto di Claudia Cardinale, una delle attrici più brave e più belle del cinema mondiale. Gian Piero Brunetta nella sua “Storia del cinema italiano” (Editori Riuniti, 1993) definì la sua bellezza “in pari tempo solare e notturna, delicata e incisiva, enigmatica e inquietante”. Per me, bravissima e bellissima, mi ritornano nella mente, solo per citarne alcune, le sue interpretazioni di Angelica nel “Gattopardo” o quella di Jill in “C’era una volta il west” o di Mara ne “La ragazza di Bube”.
Il libro di Pierfranco Bianchetti ci porta, in un viaggio lungo più di cento anni, le figure di donna rappresentate nel cinema e le donne del cinema (attrici, registe, sceneggiatrici, produttrici, scenografe, doppiatrici, segretarie di produzione, montatrici, giornaliste, critiche cinematografiche, etc.).
“Questo percorso comprende anche le eroine dello schermo, le più fortunate, quelle baciate dal successo, ma anche le più colpite dalla malasorte, le dive maledette, condannate a una triste fine dopo una esistenza infelice”
C’è un capitolo dedicato alle dive milanesi del cinema italiano ( Lucia Bosè, Adriana Asti, Ottavia Piccolo, Agostina Belli, Valentina Cortese, Angela Finocchiaro ed altre ancora) e un altro dedicato al fascino della donna milanese nei films “ commessa, operaia, signora dell’alta borghesia”). Insomma, è una carrellata di figure, che hanno dato vita al cinema italiano e internazionale.
Nella molto preziosa presentazione del libro, Francesca Comencini scrive: “Intanto ci rendiamo conto che il cinema nasce, per così dire, donna. Impossibile pensarlo senza la centralità assoluta dei personaggi femminili, seppure sempre incasellati in stereotipi…” E più avanti aggiunge un concetto molto vero: ”molto si perdona alle donne, fragilità, errori e patemi ma non la loro forza. La forza delle donne, quella forza che evidentemente viene vissuta così radicalmente minacciosa, non è mai perdonata….”
“È un percorso lungo e accidentato quello che conduce a fare del cinema un racconto a più voci, diverse tra loro, prima fra tutte la voce delle donne che di quel genere umano, di cui il film è cultura, sono più della metà. Accidentato lungo, ma ormai avviato, inarrestabile. Ed è importante caprine l’urgenza e la portata: non infatti per una questione di quote, di fredde percentuali, di “difesa” ( chi poi mai si dovrebbe difendere, le donne non hanno bisogno di esserlo!) dei diritti delle donne: si tratta di qualcosa che rappresenta una possibile salvezza per tutta l’umanità, e che dovrebbe essere preoccupazione di tutte e tutti, e non solo una battaglia delle donne…”
Prosegue Francesca Comencini : “Se il mondo ha una possibilità di cavarsela è uscendo dall’idea che la forza maschile sola al comando possa essere una qualsiasi, minima soluzione che il maschio forte, unico narratore del mondo, in un racconto apparentemente neutrale ma che esclude più della metà dell’umanità, possa dare conto e comprendere la complessità di un mondo variegato, frammentato, contradditorio e stanco della prepotenza umana che lo maltratta. Dobbiamo desiderare, a ogni costo, che la vita delle persone e il mondo in cui si svolge venga pienamente raccontato in tutte le sue differenze, di genere, di razza, di orientamento sessuale, di provenienza. (io aggiungerei, anche di condizione sociale. ndr). E la voce delle donne è l’arca che contiene tutte le voci differenti; se è silenziata, nessuna altra voce troverà spazio; se viene potenziata, apre il mare per tutte e tutti. Importante ogni occasione per ricordarlo con forza e con fierezza, e questo libro ne è una.”
E questo libro è anche la dimostrazione della passione, dell’amore per il cinema di Bianchetti. Grazie al suo lavoro abbiano un ampio, accurato e minuzioso catalogo della presenza femminile nel cinema. E traspare la dedizione, l’entusiasmo e la competenza che Bianchetti ha sempre messo nella sua attività di promotore del cinema, oggi come ieri quando da responsabile del “settore cinema” ha prodotto tante, valide iniziative che hanno dato lustro al Comune di Milano.
E di questo libro come di tutta la sua attività dobbiamo essergli grati.
Un libro utile a tutti, agli amanti del cinema come a quelli che vogliono ripercorrere più di cento anni di storia, non solo della presenza femminile nel cinema, ma di storia della cultura.
Luigi Corbani
(martedì 25 maggio 2021)
Luglio
Segnalo questo libro di Diego Masi (Eurafrica, L’Europa può salvarsi salvando l’Africa, Fausto Lupetti editore, € 20) perché è molto interessante e di grande attualità. In queste settimane siamo di nuovo alle prese con gli sbarchi degli immigrati provenienti dalla Libia o dalla Tunisia e di nuovo si scatenano le polemiche. Vi ricorderete anche un protagonista attuale della scena politica, Attilio Fontana, quando in campagna elettorale nel gennaio 2018 dichiarò: “Non possiamo accettare tutti gli immigrati che arrivano: dobbiamo decidere se la nostra etnia, la nostra razza bianca, la nostra società devono continuare a esistere o devono essere cancellate”. La dichiarazione aveva un forte contenuto razzista, ed era di pura propaganda, poiché l’Europa sarà “cancellata” se non affronta il problema dell’Africa in modo intelligente, se continua a non esserci una politica di immigrazione, regolata e controllata, legale e giustificata così come una politica verso la Libia, una politica del Mediterraneo e soprattutto del continente a sud dell’Europa, che dista dalle nostre coste siciliane meno di centocinquanta chilometri.
L’Africa dista da noi come Torino dista da Milano, eppure non sappiamo nulla di quel continente: i giornali o il servizio pubblico (la Rai ha un corrispondente da Nairobi) non ne parlano se non sporadicamente: le notizie principali sono dovute agli sbarchi di africani sulle nostre coste. I giornali dovrebbero avere, tutti i giorni, notizie su un continente che è tre volte più grande dell’Europa, intesa dall’Atlantico agli Urali. L’Africa in sessanta anni ha quintuplicato la popolazione e nel 2050 la avrà quasi raddoppiata, arrivando a 2,5 miliardi di abitanti. La pressione migratoria sull’Europa sarà fortissima: non si arresta con la chiusura dei porti la voglia di migliorare la propria vita, oltre al desiderio di sfuggire alla fame e alle guerre, ai conflitti locali, drammatici e devastanti.
Un continente ricchissimo di materie prime (“Le ricchezze della povertà” è un capitolo) e in cui due persone su tre sono agricoltori e una è donna. Solo il 25% della terra arabile sub sahariana è utilizzata e solo il 7% è irrigata. Ci sono 54 stati, ma solo 14 hanno un Pil superiore ai 40 miliardi di dollari: così questi 14 Paesi fanno l’82% del PIL africano. In testa la Nigeria che ne produce il 19% grazie al petrolio, che è anche una fonte importante per l’Angola (4%). Il Sud Africa fa il 15%; quattro paesi del Nord Africa (Egitto, Algeria, Marocco e Libia) fanno il 22%; tre paesi dell’est (Kenya, Etiopia, Tanzania) fanno il 10% e quattro paesi dell’ovest (Ghana, repubblica democratica del Congo, Costa d’avorio, Camerun) fanno un altro 8%. Tutti gli altri quaranta stati fanno il 18% del PIL africano.
La nostra ignoranza di quel continente è pari alla nostra impotenza. E il fatto grave è che le forze liberali o di sinistra, europee, non sono state capaci di elaborare delle politiche adeguate di rapporto con l’Africa, al di fuori dalle missioni umanitarie o assistenzialistiche.
Il libro di Diego Masi avanza una ipotesi: di fronte al disegno della “via della Seta”, di una Eurasia, dominata dalla Cina e di fronte all’isolazionismo degli Usa (e aggiungo io, aggravato dagli errori compiuti in tutti questi anni nel Nord Africa e nel Medio Oriente), l’Europa dovrebbe darsi un piano, graduale, per formare con questo continente l’Eurafrica. Il libro è ricco di dati, di informazioni, di spunti politici e sociali per delineare la prospettiva di un forte mercato africano interno, che l’Europa dovrebbe aiutare a costruire. “La piramide della ricchezza evidenzia come il 50% della popolazione adulta africana viva al di sotto della soglia di povertà, con meno di due dollari al giorno. La crescita demografica prevista non darà tregua: è presumibile che nel 2050 questa fascia di poveri accoglierà 1,5 miliardi di persone….Nel continente africano, nei prossimi dieci anni, 440 milioni di giovani entreranno sul mercato del lavoro. Di questi, solo 140 milioni troveranno presumibilmente una occupazione nei Paesi di origine”.
Da tante parti si stima che ci saranno circa 1,8 milioni di persone all’anno da qui al 2050 che emigreranno dall’Africa: una situazione che, se non guidata e controllata, in Europa (dove la popolazione diminuisce di un milione all’anno), dà spazio alla destra xenofoba e razzista che parla di sostituzione etnica.
Il libro di Masi sollecita dunque l’Europa ad avere un piano, articolato e graduale, fatto di diversi aspetti, che sappia favorire lo sviluppo dell’Africa: salvare l’Africa per salvare l’Europa, altrimenti i paesi europei saranno schiacciati tra le potenze, americana e cinese, e la pressione migratoria disperata dell’Africa. E la proposta di Masi parte dai quattordici Paesi indicati prima. Una tesi che fa riflettere. Come fa molto pensare la descrizione di Korogocho, una baraccopoli della periferia nord-est della capitale keniota, Nairobi, da cui è incominciata quattordici anni fa l’avventura della organizzazione fondata da Diego e dalla moglie Daria “Alice for children”. Korogocho confina con Dandora Dumpsite, la più grande discarica a cielo aperto dell’Africa: oltre 2,5 chilometri quadrati, (per intenderci, da piazza del Duomo all’Arco della Pace), una distesa ampia a perdita d’cocchio, fumante, maleodorante, ai margini della quale vivono centinaia di migliaia di persone e bambini ai margini del sudiciume.
È triste pensare che tutte le nostre discussioni sono vertono su qualche migliaio di persone che sbarcano sulle nostre coste a prezzo della loro vita e non ‘c’è in Parlamento come in altre istituzioni, o sulla stampa e sui media una riflessioni attenta sul mondo che ci sta davanti. Milano per esempio potrebbe essere uno dei principali centri di formazione delle classi dirigenti africane, il che comporta una politica del Comune, della Regione e delle Università orientata efficacemente in questa direzione.
Cielle
(giovedì 30 luglio 2020)
Giugno
“Come l’energia pulita può cambiare l’economia, la politica e la società” è il sottotitolo di questo libro di Valeria Termini. E basterebbe questo per incuriosire il lettore avido di capire che cosa stia succedendo e quale futuro ci aspetta. “Le rivoluzioni industriali avvengono nella storia quando si compongono i diversi tasselli dell’innovazione tecnologica radicale. Oggi il cambiamento delle fonti di energia si innesta sulla rivoluzione digitale, ma non solo: l’innovazione dei materiali crea la possibilità di conservare l’energia nelle batterie e avvia la rivoluzione dei trasporti, sui quali oggi ricade la responsabilità maggiore nell’inquinamento dell’atmosfera… Ma il processo del cambiamento è complesso. Le sue dinamiche incontrano ostacoli e barrire economiche, sociali, politiche, industriale da capire a fondo e da superare; non è semplice unire tasselli di innovazione industriale frammentati perché l’umanità faccia sistema in un nuovo modello di sviluppo. Le forze che ignorano o resistono al cambiamento sono potenti e diffuse. È una battaglia di democrazia e di sopravvivenza, che viene a maturazione in questo secolo e che crea le basi per lo sviluppo autonomo di paesi poveri, in Africa in primo luogo, e per lasciare in eredità un pianeta vivibile alle nuove generazioni.”
Il libro risponde pienamente alla curiosità di un profano che si chiede come possa conciliarsi lo sviluppo economico con il risparmio energetico: “La domanda di energia è aumentata con la crescita del prodotto industriale per tutto il Novecento. È stata infatti un indicatore di crescita del prodotto interno lordo nei paesi avanzati e in quelli in via di industrializzazione; nel tempo e con la crescita aumenterà l’intensità energetica – l’unità di energia consumata per unità di valore aggiunto prodotto – insieme con la elettrificazione nell’organizzazione della vita quotidiana, la diffusione dei trasporti e l’uso nell’industria. La domanda di energia diventa così un indicatore di benessere fino all’apertura del nuovo millennio. Solo con le nuove tecnologie e le politiche di efficienza energetica degli anni 2000 si avvierà il disaccoppiamento tra consumo di energia e crescita economica nei paesi più industrializzati”.
Che cosa succederà, sotto questo profilo, per i paesi in via di sviluppo ? Che futuro avranno i combustili fossili ? Che scenario geopolitico si configurerà con l’aumento delle energie rinnovabili? Che costo hanno e avranno le energie rinnovabili? Come si può conservare l’energia prodotta dalle rinnovabili e quanto costa lo stoccaggio? Che ruolo potrà assumere l’Unione europea, i cui primi vagiti sono legati alla Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca – 1951) e alla Comunità europea dell’energia atomica (Euratom – 1957)? E tutta la campagna per le auto elettriche non richiederà un aumento della produzione di energia elettrica, e come ? E quali sono i luoghi della transizione ? Cosa succederà in Asia, in India e in Cina? Il libro risponde a questi interrogativi e apre scenari affascinanti. “Un obiettivo economico del secolo a venire, infatti, è lo sviluppo dell’Africa. E dalla diffusione capillare dell’energia elettrica nella regione, prodotta da fonti rinnovabili e da impianti gestibili localmente con le risorse disponibili in loco, l’Africa e le regioni colpite dalla povertà energetica potranno trarre la base primaria per avviare una crescita sostenibile, che si avvalga del lavoro della popolazione locale”.
Valeria Termini trasmette un ragionato ottimismo sul futuro: “Il salto tecnologico consente un balzo economico e sociale proprio a partire dal mondo dell’energia, poiché offre nuovi strumenti di intervento per la produzione locale. Una visione strategica e politica di lungo corso lo impongono con urgenza.”
Valeria Termini parla di un futuro in atto: recentemente, ho trovato in un bellissimo bilancio di sostenibilità – fatto molto bene, con molti dati e argomenti – di una azienda di Ravenna la Tozzi Green, “We light up the world in green”, la descrizione del più grande progetto al mondo per la fornitura di energia elettrica con risorse energetiche rinnovabili in aree non collegate alla rete elettrica nazionale: è un progetto di elettrificazione rurale per 864 strutture sanitarie, 4.051 strutture scolastiche e 208.526 abitazioni di famiglie.
Ora, leggendo “Il mondo rinnovabile”, mi vengono alcune pensieri.
Non si può fare un piano di energie rinnovabili per tutti gli edifici pubblici (scuole comprese), che consentirebbe di risparmiare ed investire nello stesso tempo ? Non è pensabile realizzare con le aziende pubbliche (Enel ed Eni) un piano di cooperazione con i Paesi africani, sostenuto da fondi italiani ed europei ?
L’autrice di questo libro non è stata chiamata in nessuna delle tante task force, dei tanti comitati o commissioni. costituiti dal governo Conte-Franceschini-Di Maio-Speranza-Bellanova. Trovo la cosa non solo incredibile, ma espressione della miseria della politica italiana. Non contano le competenze, le qualità, contano solo le amicizie e le sponsorizzazioni politiche. Ora ditemi se una persona così non poteva guidare il “Comitato di esperti in materia economica e sociale”?
Mi permetto solo di elencare dal suo curriculum:
“Professore ordinario di economia politica dal 1995. Ha ricoperto numerosi incarichi istituzionali e, come economista, è stata Presidente e membro di Commissioni di esperti del Governo italiano, europeo e delle Nazioni Unite in materia di energia e cambiamenti climatici, governance e politiche per i servizi pubblici, formazione dei dirigenti pubblici nell’UE.
Dal 2006 al 2009 ha diretto la Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione, istituzione di alta cultura della Presidenza del Consiglio dei Ministri per il reclutamento e la formazione dei dirigenti pubblici. E’ stata Presidente dell’International Association of Schools and Institutes of Administration (IASIA), nominata all’unanimità nel 2010 per il triennio 2010-2013, dopo esserne stata Vice-Presidente per l’Europa (2006-2010).
E’ stata insignita dell’International Public Administration Award dall’American Society for Public Administration-ASPA(2011).
Membro del Committee of Experts on Public Administration (CEPA) delle Nazioni Unite, nominata da Ban Ki Moon nel 2010, per il quadriennio 2010-2014.
Commissario dell’Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente (ARERA) da febbraio 2011 ad agosto 2018.
Vice-Presidente di MEDREG (Mediterranean Energy Regulators) dal 2016 al 2018.
Dal 2013 al 2017 è stata Vice-Presidente del Council of European Energy Regulators (CEER).
Dal 2011 al 2015 è stata Componente del Board of Regulators di ACER (Agency for Cooperation of Energy Regulators).
Ha guidato la delegazione italiana per Energia e Cambiamenti Climatici in sede G8, Nazioni Unite e OECD ed è stata Rappresentante del Presidente del Consiglio (Romano Prodi) nei Major Economies Meetings (MEM), istituiti dalla Presidenza americana per costruire la governance del “dopo-Kyoto” (2007-2008).
Vice-Presidente del Gestore del Mercato Elettrico (GME), designata dal Ministro dell’Economia, ha contribuito alla costituzione in Italia della “Borsa Elettrica” e alla sua regolazione (2000-2003).”
Non ha mai lavorato per la banca d’affari Morgan Stanley né per McKinsey & Company, non ha fatto il manager di multinazionali private. E non frequenta i social. Abita a Roma, non a Londra. Ragione per cui, secondo me, sarebbe la persona ideale per ricoprire i più alti incarichi istituzionali in un Paese di persone serie.
Cielle
(lunedì 29 giugno 2020)
Maggio
Una lezione di strategia e di politica estera. Consiglio vivamente questo libro perché è una “mappa del grande disordine mondiale” . Il libro è dei primi del 2018 ma la sua lettura è quanto mai utile oggi, poiché è il libro di un esperto di questioni internazionali, che non si è improvvisato a disegnare scenari mondiali. Purtroppo in questi giorni abbiamo inondazioni televisive di dilettanti, atlantisti fuori tempo massimo, e filocinesi a sproposito.
Qui, in questo libro di Sergio Romano, abbiano le analisi attente e documentate dello scenario mondiale con alcune osservazioni di notevole interesse, che colpiscono anche per la interpretazione originale delle vicende del mondo. In un Paese, dove l’analfabetismo sulle questioni internazionali è assai diffuso anche ai massimi livelli del governo italiano, la lettura di questo libro farebbe un gran bene. Già nella prefazione sul “declino delle ideologie”, Sergio Romano esprime un concetto, ricco di implicazioni politiche e strategiche. “Vi è stata, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, un’altra ideologia, l’atlantismo, che ha goduto per molto tempo di una considerevole popolarità ed è fondata sulla convinzione che le democrazie europee e gli Stati Uniti siano legati dalla condivisione di valori umani, tradizioni culturali e interessi comuni. Mi è sempre parso che “atlantismo” fosse un modo politicamente corretto di definire l’egemonia americana. La parola è stata usata per giustificare guerre degli Stati Uniti di cui i loro alleati in Europa di fatto sono stati complici, anche in casi in cui non erano direttamente coinvolti. Queste guerre, quasi sempre inutili dal punto di vista politico, hanno contributo a rendere il mondo ancora più pericolosamente instabile. L’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca ha reso l’ideologia atlantica ancora meno credibile e desiderabile”. Per inciso, rimane per me un mistero il fatto che nessuno in Italia abbia ripreso le proposte di Macron sul superamento della Nato e la costruzione di una comune difesa europea.
Il libro affronta cinque capitoli del panorama internazionale: il tramonto del mondo bipolare, il “grande gioco” mediorientale, le “tigri” asiatiche, la due Americhe, l’Europa dentro e fuori l’Unione. Il discorso di Romano ha anche un altro pregio: stimola approfondimenti sulle singole situazioni e riflessioni non superficiali sulla politica.
A proposito di Trump, scrive: “Alan Dershowitz, un avvocato noto per le sue qualità professionali e le sue posizioni liberali, ha scritto sul “New York Times” che negli Stati Uniti è in corso da qualche anno un preoccupante processo di criminalizzazione della politica. Anziché battersi nei seggi elettorali, i partiti si combattono nelle aule di giustizia con i codici e le indagini giudiziarie…Gli italiani conoscono queste situazioni. A giudicare da ciò che è successo nel nostro Paese all’epoca di Mani pulite, questa criminalizzazione della politica ha altre pericolose ricadute. Diffonde la convinzione che la democrazia sia marcia, giova ai movimenti populisti e finisce per assegnare ai magistrati funzioni e compiti che dovrebbero appartenere alla politica. Trump è un personaggio inquietante e probabilmente inadatto al suo incarico, ma può contare su un considerevole seguito politico e ha molti partigiani che non accetterebbero una destituzione per via giudiziaria. Per eliminare un presidente in carica senza alimentare tensioni civili, i voti sono molto più efficaci delle sentenze.” E questa è una bella lezione per tutte le forze politiche italiane degli ultimi trent’anni.
Molto, molto interessanti sono le pagine sull’Europa, con la considerazione, quanto mai vera, che l’asse franco-tedesco ha certo aspirato a una leadership europea, ma ha molto spesso favorito dei passi avanti sulla strada dell’unità. Vorrei poi richiamare l’attenzione sulle valutazioni sull’allargamento della CEE, (come si chiamava allora) ai Paesi dell’Est. “Prima di accoglierli avremmo dovuto ricordare che fra il nucleo originale della Comunità economica europea (Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi) e i quattro Paesi di Visegrád (Repubblica Ceca, Polonia, Slovacchia, Ungheria) correva una fondamentale differenza. Noi avevamo aderito a un progetto unitario per rinunciare, sia pure gradualmente, a quelle sovranità nazionali che erano responsabili di due conflitti mondiali. I quattro di Visegrád, e più tardi le repubbliche baltiche, invece, erano uscite dal sistema sovietico con la speranza di recuperare una sovranità perduta. Hanno chiesto di aderire all’Unione Europea perché garantiva sostanziosi aiuti economici e un più largo mercato del lavoro per i propri cittadini. Ma hanno affidato la loro sicurezza agli Stati Uniti e mantengono con Washington relazioni più strette, per molti aspetti, di quelle che hanno con Bruxelles e Strasburgo.”
Nel libro poi si indicano le ragioni della diffidenza di Putin verso i Paesi occidentali e gli Usa. “Quando ebbe luogo la riunificazione tedesca, noi promettemmo al leader sovietico Gorbačëv – e io ero presente – dice l’ambasciatore americano a Mosca dal 1987 al 1991, Jack Matlock – che se la nuova Germania fosse entrata nella Nato, non avremmo allargato l’Alleanza agli ex Stati satelliti dell’Urss nell’Europa dell’Est. Non mantenemmo la parola. Peggio: promettemmo anche che la Nato sarebbe intervenuta solo in difesa di uno Stato membro e invece bombardammo la Serbia per liberare il Kosovo che non faceva parte della Alleanza” e così la “Nato in marcia” ha guastato le relazioni con la Russia, con la quale l’Europa deve tornare a dialogare.
“Possiamo dire agli Stai Uniti che Russia e Cina non sono i nostri rivali, se non quando sono in discussione le strategie e le regole del mercato. Possiamo disapprovare i loro regimi politici e prendere le nostre precauzioni, anche militari, ogniqualvolta cercano di imporre la loro volontà. Ma non condividiamo le ambizioni imperiali dell’America e non siamo tenuti a essere nemici dei suoi nemici. La Guerra Fredda è finita e noi non siamo interessati a perpetuarne lo stile e i metodi.”
E qui c’è una visione su cui le nostre forze politiche dovrebbero meditare: “La politica di coloro che hanno veramente a cuore l’unità dell’Europa dovrebbe essere simile a quella dei Paesi che negli anni della Guerra Fredda scelsero per se stessi il “non impegno”. Potremo allora fare della Russia il nostro principale partner economico e parlare di una Europa “dall’Atlantico agli Urali”.
Cielle
(martedì 26 maggio 2020)
Aprile
Come sia conciata la Rai è del tutto evidente, ma in questi mesi di coronavirus risalta ancora di più la catastrofica condizione della informazione pubblica radiotelevisiva. Sul Migliorista, è stato ricordato quel film bellissimo “The Post”, un giornale che ha come motto “la democrazia muore nell’oscurità”. In quel film, la Corte suprema americana ricorda che “l’informazione libera è fatta per chi è governato, non per chi governa”.
La Rai non sta a Washington, sta a Roma Nel caso della Rai, è palese che tutto gira attorno a chi governa, al Palazzo, si diceva una volta. Ma c’è di più. La Rai e l’Alitalia sono Roma. Sono l’espressione intoccabile del generone romano “un organismo monocellulare, che ingloba destra, sinistra, centro: è un’ameba mangia-cervello, un nemico subdolo che cresce nelle temperature miti favorite dal ponentino, che si sviluppa nei salotti e nelle terrazze romane e che pervade politica, economia, affari, curia romana, istituzioni democratiche, cultura, enti e aziende pubbliche, livelli elevati dell’apparato dello Stato.” E la più sfacciata manifestazione del generone romano è proprio la Rai.
Pensare di spostare qualcosa della Rai da Roma è un atto di suicidio: ci dovrebbero essere i cartelli “chi tocca la Rai, muore”, perché la Rai è più pericolosa dell’alta tensione. È quello che è successo a Carlo Verdelli, che ha tentato di cambiare il modo di fare informazione e di essere della Rai e ci ha lasciato le penne. Volevo recensire questo libro nei mesi scorsi, ma mi sembrava una piaggeria nei confronti del direttore di Repubblica. Adesso che l’olandese ha cacciato, con un blitz, Verdelli dalla conduzione di Repubblica, mi sembra giusto sottolineare questo bel libro, che racconta un bel pezzo della nostra storia recente. Non è un libro su una breve esperienza di lavoro in Rai, è un racconto del disastro della politica attuale e anche del bullo (“Alle prossime politiche, prendo (prendo!) il 40% e allora sì che si vola”). Scrive Verdelli “Montagne russe, dal picco (2014) al precipizio (2018) cinque milioni di elettori perduti, sperduti, dispersi, la metà dei quali passati ai 5 stelle più per disperazione che per convinzione”.
Mi permetto solo dire che i “partiti” non hanno mai lasciato la Rai. Per essere precisi, le bande, che fanno riferimento ad altre bande di potere (parlare di partiti in questa situazione mi appare esagerato: ci vorrebbero degli ideali, dei valori, dei progetti, dei programmi, che allo stato delle cose non si vedono) e poi ci sono sempre i navigatori (non quella vergognosa invenzione del ciarlatano del reddito di cittadinanza), quelli abituati a tutte le intemperie, che solcano i mari tempestosi dei “cambiamenti”.
Pensare di togliere alle bande “politiche” i “reggi microfono” (il termine “giornalisti” mi sembra molto impegnativo, presuppone che uno faccia domanda e costringa l’interlocutore a rispondere) è molto pericoloso. Poi cercare di fare informazione, di usare i mezzi nuovi, di essere presente sui social, di essere attivo su internet, è stato ritenuto minaccioso per una azienda dai numeri impressionanti: 13.000 dipendenti (Mediaset ne ha cinquemila, ma un fatturato maggiore di quasi un miliardo); 1729 giornalisti, di cui uno su cinque è dirigente; 10 testate giornalistiche; 13 canali televisivi; 10 canali radio; 9 centri per le produzioni tv e 5 per quelle radiofoniche; 11 sedi di corrispondenza dall’estero. “La terza edizione della TgR, cioè il tg regionale, va in onda su RaiTre da mezzanotte e 10 a mezzanotte e 14. Quattro minuti, ascolto marginale, ma con una spesa pazza da tre milioni di euro all’anno. Possibile? Eccome. Le sedi regionali chiudono alle 22, quindi il personale (giornalisti, operatori, montatori) è in straordinario notturno.” “Con un organico di 663 giornalisti la TgR è la redazione più grande d’Europa”. Ci sono 24 redazioni, anche se le Regioni sono 20 (Trentino, ma anche Alto Adige, una in più in Sicilia, una in più in Friuli, e una in più in Sardegna). “Ci sono 25 redattori e tutti i mezzi tecnici a Campobasso(Molise, meno di 50.000 abitanti) ma niente e nessuno a Caserta (Campania, più di 75.000 abitanti).” Ogni pagina di questo libro merita attenzione, perché apre una finestra su un mondo surreale, dove “direttori (e vice) un giorno, direttori (e vice) per sempre, benefit compresi”.
Da più parti si ritene che la Rai sia non riformabile, e forse è proprio vero.
Intanto è molto interessante leggere questo libro per capire anche se possiamo fare qualcosa per cambiare questo mostro, e giustamente Carlo Verdelli, alla fine di ogni capitolo, scrive “delle istantanee dall’Italia del “me ne frego”, che sembra di sentire Pinocchio, quando si infila giocondo nel Paese dei balocchi. “La scuola ? Me ne frego” È il Paese che abitiamo oggi e che ci godiamo ogni giorno in tv, glorificato senza pudore in special modo dalle reti del Servizio pubblico”.
A proposito, le scuole forse aprono a settembre, forse.
Cielle
(lunedì 27 aprile 2020)
Marzo
In questi giorni di “arresti domiciliari” di massa, consigliamo di leggere questo libro. Potete anche scaricarlo (€ 6,99, pagg. 263, editore “La nave di Teseo”) e addentrarvi in un Paese diverso da quello raccontato dai luoghi comuni della destra e della sinistra. Noi siamo entrati nella grande tragedia dell’epidemia del Covid-19 con una “società signorile di massa”, come ne usciremo ? Che ne sarà delle distorsioni socio economiche e di costume di cui parla Luca Ricolfi?
Con una analisi spietata, viene descritta una società “signorile di massa”, in cui “il numero dei cittadini che non lavorano ha superato il numero dei cittadini che lavorano; la condizione signorile, ovvero l’accesso a consumi opulenti da parte di cittadini che non lavorano è diventata di massa; il sovraprodotto ha cessato di crescere, ovvero l’economia è entrata in un regime di stagnazione e decrescita”.
L’autore ci racconta che a partire dal 1964 l’occupazione diminuisce ma la disoccupazione non aumenta o aumenta molto meno di quanto si riducano i posti di lavoro. Tanto che nel 2018 “in nessuna società avanzata lo scarto tra il tasso di occupazione degli stranieri e quello dei nativi è ampio come in Italia, dove lavora il 59,8% degli stranieri e solo il 43,3% dei cittadini italiani”. E questo perché gli stranieri portano via il lavoro agli italiani? Tutt’altro: nella società signorile, ha una certa importanza “la presenza di un’ampia infrastruttura paraschiavistica, di cui la popolazione straniera è quasi sempre una componente essenziale”.
In questo quadro, più della metà dei cittadini italiani ( quindi anche chi non lavora) arriva a godere di beni e consumi pregiati, fino a poco decenni prima riservati a una élite: “ora i signori sono più numerosi dei produttori”. E tutto ciò in un Paese che non cresce più da tempo: dal 1945 al 1995 l’Italia cresceva ad un ritmo più alto delle altre economie occidentali, e poi nei primi anni novanta è diventato minore di quello degli altri Paesi occidentali e infine dal 2009 è diventato negativo o vicino allo zero. In questo quadro il potere di acquisto è oggi cinque volte quello del 1951 e la ricchezza patrimoniale delle famiglie italiane è passata dai 100.000 euro del 1951 (ai valori attuali), ai 350.000 dei primi anni novanta fino ai 400.000 euro di oggi. Dal 1964 al 1994 si trasforma in “una repubblica fondata sulle rendite”, contrassegnata dal fatto che la quota di reddito composta da salari e profitti, ovvero dal sistema produttivo, si riduce a favore delle rendite, prodotte dalla “interposizione pubblica”. In questo ci metterei anche l’evasione fiscale e contributiva che assomma ad oltre 150 miliardi, qualcuno stima che i fondi all’estero sia oltre 300 miliardi. Poi dalla prima metà degli anni novanta ad oggi, la ricchezza ha continuato a crescere mentre il reddito ristagnava.
Sul Migliorista di dicembre, si scriveva che (https://www.ilmigliorista.eu/politica/solo-un-italiano-su-due-paga-lirpef-quelli-che-pagano-sono-sempre-meno-e-pagano-sempre-di-piu/)
“Solo il 51% degli italiani (trenta milioni e seicento settantamila) versa almeno un centesimo di irpef: mettendoci dentro anche le addizionali regionali e comunali, versano 174 miliardi, con una media di imposta per contribuente di 5.681 euro, il che corrisponde al 21% del reddito dichiarato (839 miliardi)…In sostanza, il patrimonio delle famiglie italiane è (nel 2017, secondo i dati della Banca d’Italia) quattro volte il debito pubblico, cinque volte e mezzo il prodotto interno lordo e più di otto volte il reddito prodotto. Si tenga conto che 3,7 milioni di immobili (non una quisquilia) non appaiono nelle dichiarazioni dei redditi o non si sa quale sia il loro uso…. La media pro capite del costo della sanità è di 1.878,16 euro: quindi una famiglia di tre persone costa allo Stato 5.634,48 euro: in totale 114 miliardi. Di fatto, il 37% degli italiani ovvero il 54% dei contribuenti pagano la sanità anche per tutti gli altri.”
Il libro dunque ha il pregio di proporre, in modo chiaro, inesorabile e impietoso, senza alcun pregiudizio ideologico, un esame di alcune questioni fondamentali: la ricchezza accumulata dalle generazioni precedenti, la distruzione della scuola, la formazione di una “struttura paraschiavistica”.
L’autore smonta, con analisi puntuali dei dati, una serie di luoghi comuni, sulle disuguaglianze del reddito, sulla dimensione della povertà e approfondisce il tema dei consumi, i “segni” della “società signorile di massa “, che collocano l’Italia, per molti indici, ai primissimi posti in Europa o addirittura nel mondo.
Nel libro, ovviamente, si considerano anche i cambiamenti nella mentalità, nei comportamenti, nei costumi che la “mente signorile” induce nella società italiana e ci si interroga sul futuro dell’Italia e degli altri Paesi.
Emerge quindi un ritratto di questo Paese su cui riflettere e da questo quadro, veritiero, che sgombra il terreno da false proposizioni, da dogmi propagandistici, da paraventi ideologici consolidati e mai verificati nella realtà, le forze politiche e le forze progressiste, in particolare, dovrebbero trarre alcune scelte politiche, progettuali e programmatiche.
A mio parere, da questo libro emergono con forza alcune linee sulle quali delle forze serie dovrebbero muoversi: aumentare le forze attive, in primo luogo, l’occupazione femminile; incrementare in modo consistente la produttività; combattere tutte le forme di evasione fiscale e contributiva.
Ma alla luce delle dichiarazioni di un Ministro della Repubblica italiana, per cui lo Stato deve sostenere anche i lavoratori in nero, in specie nel Sud, mi sembra che non ci possa essere alcuna fiducia in un ceto politico, che era già inadeguato prima del coronavirus.
Quello che ci si appresta a vedere, temo, sia l’incremento della spesa pubblica assistenziale, improduttiva, supportata dalla perversa ideologia di un pauperismo, considerato dilagante in Italia, già prima del coronavirus. E temo che, alla fine della storia, ci ritroveremo con molte più persone con le rendite assicurate dalla mano pubblica, molte meno persone con il lavoro e con il reddito, e con uno Stato più indebitato e con l’idea diffusa che tanto c’è lo Stato, che è una entità astratta, lontana da noi. Perché, già oggi, per moltissimi italiani la sanità è gratis.
Cielle
(venerdì 27 marzo 2020)
Febbraio
La figura di Craxi è divisiva oggi come allora: o si demonizza, come il peggiore dei mali della Prima Repubblica, o lo si venera come il migliore statista che la Repubblica abbia mai avuto. Ultimamente si è fatto avanti anche il genere “riabilitazione”, posizione che trova sempre più adepti di fronte allo squallore del ceto politico attuale. A me non piace la pratica della “riabilitazione”: sa di bolscevismo o di santa inquisizione. Quello che ritengo più utile è un esame, serio e non partigiano, dei nodi politici affrontati o non affrontati da Bettino Craxi e che cosa eventualmente dobbiamo imparare da quelle vicende per non ripetere gli stessi errori. Per questo ho apprezzato il libro di Fabio Martini, equilibrato ed onesto, nel senso che propone l’uomo e il politico, con i suoi pregi e i suoi difetti, ed espone risultati, successi, errori, vicende giudiziarie e sconfitte. Racconta la sua gavetta lunga 24 anni prima di arrivare alla guida del Partito socialista, e mette in rilievo, rivelando anche episodi non noti, la difesa strenua del primato della politica contro i “poteri forti”. “Gli fu naturale sposare il motto preferito di Pietro Nenni: la “politique d’abord”. La politica prima di tutto, la politica come sovrana della sua vita. Sarà un “di più” di politica che gli farà vincere tutte le sue battaglie più importanti, sarà un “di più” di politica che gli farà perdere le sue battaglie finali”. “Personalizzò la sua leadership (fu il primo), certo provò (malamente) a comunicarla, ma non usava dir bugie, disdegnò l’ipocrisia, fu egocentrico, ma non narcisista: in parole povere non sposò mai la scorciatoia della demagogia o del populismo”.
Martini ripercorre i sedici anni e sette mesi della segreteria di Craxi dal lontano luglio 1976 dell’Hotel Midas, dove venne eletto alla guida del PSI; ricorda vicende interne ed internazionali di cui fu protagonista Nell’Internazionale socialista, prima di diventare segretario del PSI, conosce Willy Brandt, François Mitterand, Olof Palme, Mario Soares, Felipe Gonzales. Fu l’uomo del sostegno ai patrioti cileni, ai dissidenti dell’Est (la famosa Biennale del dissenso), a Solidarność. Martini ricorda che fu l’uomo degli euromissili, di Sigonella e dell’avviso a Gheddafi che gli americani stavano per farlo fuori. La sua presidenza del Consiglio segna la lotta all’inflazione, all’evasione fiscale ( sostenendo le posizioni del repubblicano Visentini), l’aumento del prodotto interno lordo, e l’aumento della spesa pubblica, per la sanità e le pensioni. E Martini rivela anche lo scontro con Cuccia e i poteri economici forti. Come quelli con De Mita, con Scalfari e con il PCI di Berlinguer che lo descrivevano come l’uomo nero, un avventuriero o avventurista, reo di “esasperato autonomismo programmatico”. Illuminante l’appunto del segretario di Berlinguer, Tonino Tatò.
In realtà quel milanese voleva togliere il Psi dalla subalternità alla Dc e al Pci. Per di più aveva un carattere forte, “cattivo” (ovviamente quelli che non vogliono essere subalterni a nessuno, hanno un brutto, un cattivo carattere). Quel milanese poi appare del tutto estraneo ai riti della politica romana, entra a gamba tesa e non vuole farsi assorbire dal generone romano, quella ameba che penetra in tutti gli ambienti, politici, economici, sociali, di destra e di sinistra, che si sviluppa nel tepore delle terrazze romane e nel cerchio ristretto alimentato dal ponentino, il contrario del vento freddo del nord. Craxi appunto era “controvento”.
Si sostiene che furono i soldi il suo assillo. Soldi per la politica , non per il suo arricchimento personale come ebbe a dire, nel 1996, il procuratore aggiunto di Milano Gerardo D’Ambrosio, del pool di “Mani pulite”, prima di diventare sentore dei DS e poi del PD.
La cosa che trovo curiosa è che nessuno ha mai fatto i conti di quanto i partiti hanno speso dal 1978 al 1995. In questi diciotto anni, si è votato ogni anno: cinque elezioni politiche, quattro elezioni europee, quattro elezioni regionali e amministrative complete, otto referendum, dodici elezioni regionali parziali e tredici elezioni amministrative parziali. Cinquanta appuntamenti elettorali e ogni volta in gioco era il destino del governo di turno. Finché, sorpresa! Dopo pagine e pagine di inserzioni pubblicitarie, di spot televisivi (adesso si fa pubblicità sui social, che allora non esistevano ), si scopre il finanziamento illecito o illegale. Ma guarda !
“Craxi viene identificato di fatto come l’unico colpevole per la degenerazione partitocratica e affaristica della vita pubblica italiana.” Con il lancio delle monetine e con le affermazioni tipo quelle di Rutelli, “Voglio vedere Craxi consumare il rancio nelle patrie galere”, si giunge all’oltraggio, al linciaggio. Da quel momento, la politica e i partiti hanno gettato la spugna, si sono arresi e si è affidato il Paese alle Procure della Repubblica: si continua a dire “alla magistratura”, ma non è vero. Si è affidata la politica, l’economia, la società italiana ai pubblici ministeri. Così la democrazia rappresentativa è finita nel caos: “Dopo, è stato impossibile ricostituire un tessuto, civile, sociale e politico in cui riconoscersi.” ha scritto Marco Damilano.
Martini ricorda la battuta di Bossi del 1993 : “ I Re, quando scoppiano le rivoluzioni, non sono mai destinati alla galera. O salgono sulla ghigliottina o muoiono in esilio. Craxi ha già scelto l’esilio”.
Vale la pena dunque leggere questo libro su Craxi e su questi anni, anche per capire da quali questioni politiche dobbiamo ripartire, per ricostruire da capo la Repubblica italiana. O forse sarebbe bene dire, per rilanciare l’Europa, quella Europa che doveva svilupparsi dopo il Consiglio europeo del 1985 a Milano.
Cielle
(sabato 29 febbraio 2020)
Gennaio
È ora di realizzare gli Stati Uniti d’Europa
In questo libro (pp. 82, € 12) sono raccolti quattro scritti di Stephan Zweig. Come molti ricordano, l’autore si considerava europeo: il suo libro autobiografico “Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo” ne è una testimonianza: la sua lettura dovrebbe essere prevista nelle scuole.
Zweig aveva visto con la Prima guerra mondiale andare in frantumi l’Europa, e il sogno di una unità spirituale, culturale e politica. I suoi amici erano italiani, francesi, tedeschi, belgi, austriaci, ungheresi, ecc.: era l’Europa degli intellettuali che aspiravano ad una Europa dei popoli uniti.
Questi scritti hanno dei titoli illuminanti: “la torre di Babele” del 1916, “Il pensiero europeo nella sua evoluzione storica”, testo di una conferenza tenuta a Firenze nel 1932, “Disintossicazione morale dell’Europa” conferenza tenuta all’Accademia d’Italia a Roma nel 1932 e infine uno scritto del 1934 a Londra “L’unificazione dell’Europa”.
In questi suoi appassionati discorsi, ci sono alcune grandi intuizioni: a un certo punto prevede anche l’Erasmus, viaggi degli studenti in Europa, Università europee. Vorrebbe che ci sia un giornale europeo, nelle varie lingue, ma con gli stessi contenuti. Pensate che bello sarebbe, se invece del tg1,del tg2, del tg3, ci fosse un telegiornale europeo, con informazioni dai vari Paesi europei.
Ne “l’unificazione dell’Europa”, del 1934, scrive: “L’idea dell’Europa non è un sentimento primario, come lo è il sentimento patriottico, come lo è quello dell’appartenenza ad un popolo; essa non è originale e istintiva, ma nasce dalla riflessione; non è il prodotto di una passione spontanea, ma il frutto lentamente maturato di un pensiero elevato…L’egoismo sacro del nazionalismo sarà sempre più accessibile alla media degli individui che non il sacro altruismo del sentimento europeo, poiché è molto più facile riconoscere ciò che ci appartiene, che non comprendere il nostro vicino con rispetto e disinteresse”.
Zweig parla della leggenda, del mito e della nuova torre di Babele, il grande monumento all’unità spirituale dell’Europa, perchè “non disdegniamo i miti che hanno preceduto la storia…Ogni pensiero che diventa realtà, infatti, prima è stato un sogno..”.
Esiste un pensiero europeo, e ne ripercorre la evoluzione dal “latino, la lingua unitaria, la lingua madre di tutte le culture europee”:… “Erasmo da Rotterdam, Giordano Bruno, Spinoza, Bacone, Leibniz, Cartesio si sentono cittadini della stessa, unica, repubblica: la grande repubblica degli eruditi”.
“Nel Seicento e nel Settecento, i portabandiera dell’unità europea , gli esponenti più rappresentativi del cosmopolitismo non sono più i poeti, non sono più i teologi, non sono più gli eruditi, ma i musicisti, che danno vita ad un’unica grande famiglia di fratelli”.
Seguono pagine interessanti sui musicisti, su Goethe, su Verhaeren, su Rolland, ma nell’evoluzione del pensiero europeo irrompe – con una grande intuizione – qualcosa di nuovo: “Lo spirito tecnico, che al giorno d’oggi è all’opera per l’unità del mondo è un modo di pensare più dell’umanità che del singolo individuo. Questo spirito non ha patria, non ha Paese d’origine, non parla lingua d’uomo, pensa in formule, fa calcoli con i numeri, realizza macchine e queste macchine, quasi contro la nostra volontà, danno a noi esseri umani sembianze esteriori sempre più simili…Volenti o nolenti, da quando la tecnica condivisa ha accorciato le distanze, siamo sempre più vicini nel tempo e nello spazio”.
Lo scontro decisivo è tra nazionalismo e sovranazionalismo e bisogna attrezzarsi. Zweig pensa che si debba dare gambe e corpo al “pensiero europeo”: non basta predicarlo, bisogna conquistare le masse a questo pensiero dell’unità europea. E i primi interlocutori sono i giovani: bisogna cambiare i programmi scolastici, non più la storia come sequenza di guerre, (“come se quella militare fosse la sola e l’unica attività eroica di ciascuna nazione che sia mai stata richiesta all’umanità nei due, tre millenni di esistenza spirituale”) ma la storia come sviluppo della civilizzazione (“la storia dell’umanità, della costruzione della civiltà – le grandi invenzioni, le scoperte, i progressi a livello di tradizioni, scienza e tecnica – e mentre la storia delle guerre è nel complesso solo un incessante sali e scendi, la storia della civilizzazione indica un’incessante, inarrestabile ascesa, un elevarsi sempre più verso l’alto”).
Bisogna convincere i giovani che l’odio, che ha portato alle guerre più spaventose della storia umana, riduce la forza creativa dell’umanità.
Ma per Zweig non bastano le parole e gli scritti, bisogna fare. “Rammentiamo che Faust rifiutava fermamente la formula “In principio era il Verbo”, che sostituiva con le parole veritiere “In principio era l’azione”.
Questo “Appello agli Europei” ci dice che non possiamo perdere altro tempo: dobbiamo fare in fretta dei passi decisivi verso gli Stati Uniti d’Europa.
Cielle
(mercoledì 22 gennaio 2020)
Dicembre
“Breve ma veridica storia della sinistra italiana”
Inauguriamo una nuova rubrica “Il libro del mese” con la segnalazione del libro di Paolo Franchi.
“Una sinistra che non riparta dal lavoro, tradizionale e nuovo, dal recupero e dall’aumento non solo del potere d’acquisto dei salari, ma dei diritti sociali e della dignità perduti, o messi radicalmente in discussione negli ultimi trent’anni, semplicemente non ha ragione di esistere. Certo che “socialismo” è una parola antica, deturpata da una infinità di nequizie commesse in suo nome, declinabile in tanti modi, assai contradditori tra loro e che domani che cantano non ce ne sono. Ma, avrebbe detto il giovane György Lukàcs, una sinistra che considera il socialismo alla stregua di un cane morto e vive solo in un eterno, gramo presente, il suo avvenire lo ha dietro le spalle”.
Parto dalla conclusione, che è di stretta attualità, poiché a Bologna il PD ha manifestato di non voler essere questa “sinistra”, ma di aspirare ad essere un “partito radicale di massa”. E forse questa è la logica conclusione di un percorso che Franchi descrive, con la dovizia di particolari di uno che ha frequentato i “Palazzi” romani della politica, da militante prima e poi da cronista politico, dal 1976 ad oggi. È una bella e intrigante ricostruzione delle vicende della “sinistra” italiana, che come entità unica non è mai esistita; c’erano partiti di sinistra, che si richiamavano in vario modo al socialismo, il Pci e il Psi, ma proprio la non volontà di superare le divisioni storiche e politiche non ha mai dato luogo ad una “sinistra” come entità unitaria ideale e politica.. Nel 1989 nonostante il crollo del regime comunista in Polonia prima e poi la strage di Piazza Tian an men, il PCI si trascinava nel “nuovo comunismo” e ci si sono voluti due anni (non solo era caduto il Muro, ma la Germania si era già unificata !) per fare un partito “democratico della sinistra”, che ha abbandonato qualsiasi riferimento al socialismo o alla socialdemocrazia, pur chiedendo a Craxi di entrare far parte dell’Internazionale socialista.
L’idea geniale del PDS era quella di non aderire al “riformismo debole” dei socialdemocratici europei ma di inventare un “riformismo forte”, con l’idea di una “Terza Via”, in stretto contatto con Gorbaciov. Una via inesistente e una presunzione pagata a caro prezzo come dimostrano le vicende successive, ben descritte da Franchi.
Dalla lettura di questo libro, emerge anche il fastidio e la sufficienza con cui si guardava da Botteghe Oscure a tutto ciò che era estraneo alla logica dei “palazzi romani” e per questo il Bottegone è sempre stato colto sorpresa da fenomeni che non erano “romani”: Craxi, Bossi e la Lega, Berlusconi, le 5S.
Nel libro vengono ricostruiti i vari momenti in cui era doveroso fare un passo in direzione della ricomposizione della rottura del movimento operaio e socialista del 1921. Ci sono dei momenti della storia recente che dovrebbero essere insegnati in una scuola di politica e il libro di Franchi potrebbe essere un manuale obbligatorio: il 1976 con la grande avanzata del PCI; il 1978 con il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro e della sua scorta; il novembre 1979 con il caso Fiat e Amendola “che non sa l’ABC del comunismo” a detta di Berlinguer, il 1984 con il congelamento dei tre punti di contingenza (e il successivo referendum del 1985 sul “taglio della scala mobile”), la morte di Berlinguer, il 1985 con la vicenda di Sigonella, il 1987 con il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati dopo il caso Tortora, il 1989 con il referendum sul governo europeo e sulla costituzione europea, e infine la caduta del Muro di Berlino. Il libro ci ricorda che ne abbiamo viste di tutti i colori, come quella di “un segretario di partito, (Veltroni) che, all’inizio di una campagna elettorale, lasciava vacante il suo posto per impegnarsi in un’altra contesa costituiva un inedito assoluto nella storia del PCI e dei suoi derivati. E il fatto che l’esito del voto politico nazionale fosse dato pressoché per scontato non basta a dissipare le perplessità, o peggio, per una simile scelta: i comandanti non abbandonano le loro truppe alla vigilia di una battaglia campale perché prevedono una sconfitta”.
Franchi accenna con grande garbo a un limite che ha avuto l’ala “migliorista” del PCI, che, in nome del principio dell’unità del partito, non ha mai voluto condurre fino in fondo la battaglia politica – come per esempio in occasione della nomina del successore di Berlinguer o nel 1989 – e determinare una palese e organizzata minoranza e maggioranza interna.
Ed ha ragione Franchi a interrogarsi “quanto la predicazione berlingueriana, abbia contribuito, piaccia o non piaccia, alla creazione del brodo di coltura in cui sarebbero cresciuti sino a farsi enormi e almeno all’apparenza invincibili, nei decenni successivi, la cosiddetta “antipolitica” prima, il populismo poi…Non deve essere solo un caso di appropriazione indebita, però se Grillo, Di Maio e tanti altri esponenti del MoVimento 5 Stelle, hanno potuto indicarlo, senza suscitare reazioni indignate tra i loro elettori “di sinistra”, come un precursore”.
Il libro dunque si presta ad ampie riflessioni, comprese quelle che non sono mai state fatte nei vari passaggi di sigle della “sinistra”. Dovrebbero riflettere anche alcuni giornali che danno ancora credito a questi personaggi che non ne hanno azzeccata una nel corso degli ultimi 30 anni e sono sulla scena politica della Repubblica da più tempo di Togliatti (20 anni).
Cielle
(domenica 1 dicembre 2019)