Scrivo mentre giungono i dati sulla affluenza in Francia: alle 12 per il secondo turno hanno votato il 26,63% (sette punti in più rispetto al 2022), al primo turno era stato 25,9%. Il dato più alto dunque dal 1981.
Il risultato francese è importantissimo per l’Europa, per lo sviluppo della Unione Europea, e per un ruolo dell’Europa nel mondo: la Francia ha il seggio permanente all’Onu con diritto di veto, ha un arsenale nucleare, è il settimo Paese per Pil del mondo; rappresenta il 18% del Pil europeo e il 20% del Pil dell’area euro, è il secondo Paese, fondatore, della Unione Europea.
E senza una intesa tra Francia e Germania (una volta si sarebbe detto anche con l’Italia, ma visto l’isolamento in cui ci mette la Meloni..) non vi è futuro per l’Europa. Come dimostrano, anche in negativo, anche le opposizioni francesi alla CED (comunità europea di difesa nel 1954, con la preoccupazione del riarmo tedesco) e poi nel 2005 la bocciatura della Costituzione europea nel referendum (con la buona compagnia anche degli olandesi peraltro). Si noti che Presidente della Repubblica era Chirac, che nel 2002 vinse il ballottaggio con l’82% dei voti, sostenuto anche dai socialisti e da Libération (“pour la Republique, Oui, Chirac”) contro Jean-Marie Le Pen.
Dopo le elezioni in Gran Bretagna e in Francia, tutti, politici, analisti, giornalisti, sono pronti ad indicare il modello da imitare perché la sinistra vinca in Italia. Ed ecco le aquile di Roma e dintorni parlare di un “fronte popolare” per battere la Meloni e fare l’ammucchiata per i referendum sul jobs act, sull’autonomia differenziata, sul premierato e forse ho dimenticato qualcosa. Fuori tempo massimo e fuori luogo, segno anche di una povertà di analisi della realtà politica, sociale, culturale, economica del Paese e degli strumenti elettorali a disposizione.
L’unica cosa da imparare è che una forza politica deve essere capace di fare l’analisi differenziata della realtà e di assumere le iniziative politiche, che da una parte siano utili a scompaginare e destrutturare il fronte avversario (fatto di forze politiche che rappresentano interessi sociali, culturali ed economici, diversi e compositi) e dall’altra siano capaci di unire (forze politiche, culturali, economiche e sociali). E di solito vince chi riesce a coniugare interessi di parte con gli interessi permanenti e generali della società. Quando invece gli interessi diventano interessi immediati e particolari, allora la sconfitta è sicura.
A questo proposito, l’intervista di Raphaël Glucksmann di ieri sul Corriere è stata molto illuminante ed è un piccolo saggio di politica.
Sia in UK che in Francia il ricorso alle urne è stata una scelta politica. In entrambi i casi per arrestare la caduta di consensi del governo: i conservatori inglesi per salvare la pelle e salvare il salvabile, Macron per uscire dalla situazione in cui si era cacciato, perdendo consensi sia a destra che a sinistra, ben prima delle elezioni europee, che hanno semplicemente registrato i dati di fatto.
Ricordo che alle europee vi era il sistema proporzionale, e la vittoria della Le Pen (31%), nel sistema elettorale francese per le legislative, alla lunga si poteva tradurre in una maggioranza assoluta.
Qui è scattata la iniziativa politica di Macron, per non farsi logorare di qui al voto presidenziale del 2027, e dare una botta adesso e subito al Rassemblement national, chiamando a raccolta tutte le forze democratiche e cercando di separare i gollisti dalla Le Pen. Tutto questo ha portato ad aumentare la partecipazione al voto, al 67%, ovvero il 19% in più delle ultime presidenziali del 2022, in particolare raccogliendo giovani e astenuti delle europee. Questo ha portato ad una scissione in casa de Les Républicain, con una parte che va con la Le Pen e una parte nel blocco democratico. Di qui anche una ventina di desistenze dell’Ensemble di Macron e del NFP al secondo turno a favore di LR.
Si noti che, nel primo turno, Le Pen, con gli alleati guidati da Eric Ciotti uscito da Les Républicains, ha preso 10,6 milioni di voti che sono meno di quelli presi dalla stessa Le Pen al ballottaggio presidenziale del 2022 (oltre 13 milioni): il 66% dei francesi votanti non hanno votato Le Pen.
Al primo turno, sono stati eletti 76 deputati, 39 del Rassemblement national, 32 del Nuovo Fronte Popolare, tre dei Républicains e solo due della maggioranza presidenziale di Macron. È da notare che soltanto in 68 circoscrizioni il candidato macronista parte dal primo posto dopo il primo turno.
Tenendo conto che il RN della Le Pen è al secondo turno in 443 circoscrizioni su 501 ed in testa in 220 collegi con oltre il 40%, con le desistenze, i confronti triangolari sono scesi da 306 a 89, cinque quadrangolari sono diventati due, e quindi i duelli sono passati da 190 a 410. Ci sono stati 130 ritiri di candidati del Nuovo Fronte Popolare; il campo macronista si è ritirato in 80 collegi elettorali, mentre i repubblicani e vari esponenti della destra in tre. Gli altri ritiri riguardano infine i candidati RN arrivati al terzo posto.
“Le Monde” fa notare che “ben 153 casi di desistenza si riferiscono a collegi dove il candidato lepenista è in testa e dove quindi il ribaltamento diventa possibile; ma soprattutto nei collegi dove il lepenista è in testa non hanno desistito solo 4 candidati centristi, 6 di centrodestra e 1 di sinistra. Una spinta ‘repubblicana’ oltre le aspettative.”
Con evidenza dunque appare chiaro che il “fronte repubblicano” nasce con l’obiettivo, che quasi sicuramente realizzerà, di impedire alla Le Pen la maggioranza assoluta e la possibilità di fare un governo.
Ora è del tutto evidente che il “fronte repubblicano” non è una coalizione di governo, ma da questa comunque dovrà uscire una coalizione (qualcuno parla di un governo a cinque zampe: socialisti, ecologisti, macroniani, centristi e gollisti).
Il voto francese dunque ci fornisce una lezione politica ulteriore; il macronismo, l’idea di un centro dominatore, e equidistante da destra e da sinistra, è fallito. Non esiste un centro politico definito in maniera geometrica in uno spazio non occupato. In politica non ci sono vuoti da riempire, perché altri comunque li riempiono: sono le forze sociali, culturali ed economiche, sono i valori a definire ed occupare gli spazi. Il grande buco che si è aperto in Italia non è un fantomatico “centro”, è l’astensionismo, che si recupera solo con una forte ripresa di partecipazione democratica, e con un rilancio degli istituti democratici. Quello che manca in Italia è una forza riformista, socialdemocratica, per usare una vecchia espressione, molto ancorata nel territorio, con una struttura piramidale, dalla base al vertice. Ogni costruzione personalistica, o con una piramide rovesciata dall’alto verso il basso è un esercizio che lascia il tempo che trova.
E in un Paese in cui si sono fatte cinque leggi elettorali in trent’anni, si è dimenticata una lezione che viene d’oltralpe, in cui al primo turno si votano i partiti preferiti, e al secondo turno si eliminano i partiti sgraditi.
Al ballottaggio vanno i candidati che rappresentano almeno il 12,5% degli elettori, ecco perché i triangolari e i quadrangolari nel secondo turno. Nel sistema francese se i voti del candidato non rappresentano almeno il 25% degli elettori, non viene eletto al primo turno anche se ha il 51% dei voti validi. Noi invece abbiamo il maggioritario all’italiana: in moltissimi collegi uninominali delle elezioni politiche italiane del 2022 gli eletti non avevano il consenso del 25% degli elettori: si pensi solo che su 46 collegi del Meridione e delle Isole (dall’Abruzzo alla Sardegna) solo in 4 collegi l’eletto rappresenta più del 25% degli iscritti al voto.
Ma questa regola non è stata presa in considerazione neanche per sbaglio, dal Mattarellum al Rosatellum.
“La colpa, caro Bruto, non è nelle stelle, ma in noi stessi”
“Buona notte, e buona fortuna”
Luigi Corbani
(domenica 7 luglio 2024)