È possibile affermare che, all’interno di ogni comunità pur ancestrale, la difesa della salute e della vita dei suoi componenti ha avuto un’importanza primaria: basterebbe osservare come sovente, in alcune culture, vi era addirittura un’identificazione fra sciamano (il guaritore) e capo villaggio o che, almeno, lo sciamano era tenuto in massima considerazione tra i membri della società dell’epoca. È evidente che tale interesse era legato sia al rispetto della persona in sé, come anche al significato “economico” di un cittadino in buona salute.
Lo sviluppo di una cultura della sanità pubblica ha avuto, in realtà, momenti alterni fra una sua elevata considerazione e un suo dispregio.
Pure, già nel 1° secolo dopo Cristo un Imperatore Romano, Antonino Pio, istituì i primi medici pubblici (poi definiti sotto Alessandro Severo, all’inizio del 3° secolo, come Archiatres Populares), che potremmo paragonare ai medici condotti della prima metà del XX secolo.
L’analisi di queste figure, nei secoli successivi, fino agli ultimi decenni, sarebbe in realtà molto interessante anche per comprendere la situazione attuale, ma non ne è ora la sede appropriata (vedi anche: M.Bruni, F.Carelli:” C’era una volta … il medico di Famiglia”, 2014 ed. in proprio).
Possiamo dire che si è ri-sviluppata, dalla seconda metà dell’800, una cultura “politica” e sociale della sanità pubblica, con intervento diretto dello Stato nell’organizzazione dei servizi. Essa deriva appunto dalla considerazione (implicita o esplicita) che la salute popolare è un bene per la comunità. Bene delle singole persone, ma bene anche economico, inteso come capacità produttiva di una popolazione.
Dapprima (e sorvolo sulle Casse Mutue di assistenza fra i lavoratori, alcune istituite da profondi e geniali uomini come San Giovanni Bosco a scopo di tutela della salute) si diffuse il cosiddetto sistema Bismarck (1815-1890), descrivibile come assenza di copertura universale, ma come tutela da parte dello Stato del lavoratore e della sua famiglia: esso è quindi fondato su una retribuzione legata a un rapporto di lavoro: ogni lavoratore devolve a scopo di tutela sanitaria una parte del suo salario. Su questa base si sviluppò l’INAM (in realtà poi non così malvagio nelle sue prestazioni come lo si volle descrivere).
Quindi si propugnò il cosiddetto sistema Beveridge (1879-1963) che vorrebbe offrire una (teorica) universalità di prestazioni, fondandosi sulle tasse nazionali.
Sorto in Inghilterra, fu adottato in Italia con la legge di istituzione del Servizio Sanitario Nazionale (legge 833 del 1978) che entrò definitivamente in vigore il 1° gennaio 1980. Scomparvero quindi tutti o quasi gli enti mutualistici per unificare le prestazioni (in realtà sostanzialmente ridotte ai livelli più bassi).
Questa legge, saggia nei suoi principi, vide però da un lato l’entrata surrettizia in vigore di un romantico ma velleitario “diritto alla salute”, dall’altra il conseguente concetto del “tutto gratis a tutti”. Tutto ciò ha avuto un brusco arresto allorché si introdussero progressivamente dei vincoli di bilancio, per la insopprimibile dilatazione della spesa sanitaria la quale, di per sé, tenderebbe all’infinito per il desiderio sempre maggiore di “salute” del cittadino.
Pretendere la fornitura di servizi “a prescindere dalle risorse”, richiedere certificati gratuiti di buona salute per svolgere costose attività di danza o ginnastica, insinuare il diritto assoluto ad ottenere qualsiasi prestazione come certi cari e inutili esami strumentali sulla base del “non si sa mai…”, ha costretto lo Stato, e per lui le Regioni, a restringere i cordoni delle borse, fino a operare scelte sovente scellerate, miranti solo a ridurre la spesa, perdendo di vista l’obiettivo della salute del cittadino.
Certamente è stato più facile agire così che analizzare le vere sedi di sprechi e intervenire su esse (tra gli sprechi si ricordi la fornitura di etichette autoadesive molto complesse a tutela della privacy, vedi Simona Ravizza, Corriere della Sera, 3 febbraio 2012) che sono costate circa mezzo miliardo (!) di euro letteralmente gettati nel fuoco dell’inceneritore.
Da questa volontà è derivato il crollo della prevenzione (costosa in apparenza, ma foriera di importanti risparmi futuri), la scotomizzazione del territorio e dei suoi operatori, la centralizzazione degli ospedali fino all’inevitabile enorme sviluppo di una sanità privata, in alcuni casi certamente non interessata primariamente alla “Salute” come bene, quanto allo sfruttamento economico della tensione del cittadino per la salute (un reale capitalismo in Sanità effettuato anche con non sempre adeguato rispetto dei diritti dei lavoratori e con ricerca sistematica del mero profitto). E da ciò deve essere ben distinta la corretta attività privata libero professionale, come l’insieme di strutture private fondate sulla risposta ai bisogni della popolazione senza scopo di lucro, i non pochi servizi di cura della salute gratuiti e su base volontaria, rivolti soprattutto alle persone più indigenti ed emarginate
A cascata ne è derivato il sostanziale affossamento della Medicina di Famiglia, sia sotto il profilo culturale, che lavorativo ed economico: sfruttando un vecchio (e francamente solo farsesco) modello enfatizzato da Sordi nel suo “Medico della Mutua” si è ritenuto di demandare al medico funzioni prevalentemente burocratiche, unitamente a controlli vessatori e a un impoverimento progressivo dei suoi emolumenti e della sua stessa dignità. A questo si è aggiunto, sul versante pubblico, il plusvalore offerto agli ospedali fino a creare in Lombardia le ASST, strutture “ospedaliere” cui si sono date anche funzioni di organizzazione e controllo del territorio, aspetto quanto mai alieno alla “cultura” di un Ospedale.
Bisogna riconoscere che l’ospedalità privata ha saputo muoversi con capacità e astuzia: non si è mai capito perché strutture di primissimo livello come il San Raffaele siano state svendute a un gruppo privato per un costo infinitesimo del suo valore, ma evidentemente nessun ente o manager pubblico ha pensato al vantaggio di migliorare le proprie risorse, la propria “capacità di fuoco”, incorporando il S. Raffaele.
Questa presentazione è, volutamente, sommaria e necessiterebbe di approfondimento per ogni suo punto.
Prospettive
Nel quadro attuale, senza interventi radicalmente rivoluzionari, non può che essere previsto un percorso lungo questa china: incremento delle prestazioni da parte dei privati, che comunque gestiscono in proprio la scelta di cosa fare e cosa non fare privilegiando ciò che rende maggiormente o ciò che può apparire come “eccellenza”, indebolimento della sanità sul territorio (medici di famiglia, poliambulatori, consultori ecc.), rinforzo del controllo burocratico sulle attività extra-ospedaliere, per loro natura meno controllabili per via gerarchica, scelte apicali sempre più fondate su base di stretta osservanza “politica”, con ulteriore svilimento della “Medicina pubblica”.
Di fronte a momenti di reale crisi, come quello che si vive per l’emergenza Covid-19, è apparso evidente che lo sforzo terapeutico è ricaduto in grandissima parte sulle strutture “pubbliche” mentre quelle “private” si sono limitate a intervenire solo successivamente, fornendo un numero di letti, certamente inferiore a quanto avvenuto nel “pubblico”. “In realtà, il difetto nel nostro sistema economico ora rivelato dalla pandemia è purtroppo semplice: se una persona infetta è in grado di infettarne molte altre in pochi giorni e se la malattia ha una mortalità significativa, come nel caso di Covid-19, nessun sistema economico può sopravvivere senza una sanità pubblica forte e adeguata.” (Civiltà Cattolica: Gaël Giraud, Quaderno 4075 pag. 7 – 19, 4 aprile 2020, Volume II). Questo avviene soprattutto per le strutture fondate sul profitto e non sul concetto personalistico della società.
Proposte
Il primo e fondamentale cambio concerne la politica di programmazione sanitaria. Appare necessario ritenere fondamentale il rafforzamento della “Sanità pubblica” come espressione di interesse primario per la salute di ogni cittadino, meglio definendo (non eliminando: è impossibile e probabilmente inutile) la presenza del “Capitalismo in Sanità” ma rafforzando gli interventi “privati” mossi da tensione verso il bene pubblico e non da prevalenti interessi economici, con un ritorno alla “Stato Sociale” perché è “Impossibile mantenere la finzione antropologica dell’individualismo implicita nell’economia neoliberista e nelle politiche di smantellamento del servizio pubblico” (G. Giraud, ibidem). Il tutto senza pensare di arrivare ad un’illusoria “sovietizzazione” della Sanità, modello fallito e in realtà mai esistito nemmeno nell’Unione Sovietica.
A questo si aggiungono alcune considerazioni.
La limitazione alle iscrizioni a Medicina, una limitazione eccessiva, perché non è possibile certamente ritornare al 1970, allorché solo a Milano vi erano oltre 1000 matricole, ha dato luogo alla carenza di medici, dovuto anche al loro pensionamento o alla loro fuga da un sistema in cui venivano premiati troppo spesso disvalori (appartenenza politica, più o meno vera o di facciata) che reali valori come la competenza scientifica e l’impegno lavorativo.
Il soffocamento nel numero di accessi alle specialità ha dato esito (largamente prevedibile) a spaventose carenze, come si vede ora per Anestesisti e Rianimatori, Chirurghi, Ginecologi e non solo.
Le “esigenze di risparmio”, sul personale universitario e sanitario, sui necessari costi per la docenza, hanno limitato eccessivamente il numero di medici ammessi al corso triennale per Medico di Medicina Generale fino a condurre alla gravissima carenza di MMG e di PLS (pediatri) sul territorio.
L’effetto nefasto di queste scelte era ben prevedibile già quindici – venti anni fa (e vi era chi lo aveva anticipato), ma le motivazioni di “dover perseguire il risparmio a tutti i costi” si sono rivelate sciocche e miopi. Aver avuto politici (legislatori e amministratori) così poco preveggenti (ogni governo ha selvaggiamente decurtato random i fondi alla Sanità pubblica) è un atto d’accusa contro tutta una classe politica, purtroppo, ma anche contro tutta una classe di sindacalisti medici, interessati a un proprio “particulare”, anche ai benefici personali che derivavano dall’acquiescenza al potere, rispetto alla tutela dei colleghi e della popolazione. Ma non serve rivangare il passato.
Nemmeno serve pensare che, di fronte alle nostre carenze, si debba sempre e solo aspettare una “bella emergenza” per trovare i quattrini necessari.
Piuttosto è necessario individuare gli errori per non commetterli più ed evitare che le scelte politiche virtuose vengano soffocate da “esigenze di bilancio” imposte altrove, nonché iniziare ad avviare proposte virtuose per la rinascita della Sanità pubblica. Non stupisce che i decessi da Covid-19 in Germania siano inferiori a quelli italiani, vedendo il numero assurdamente basso di posti-letto e di strutture di Rianimazione in Italia. E anche di Rianimatori.
È necessario ripartire con assoluta urgenza, con idee nuove e innovatrici rivedendo l’organizzazione stessa degli ospedali e del territorio, eliminando la difesa di vecchi interessi, con una politica interessata solo al benessere della popolazione, dei lavoratori e delle famiglie, con un occhio speciale per i minori e gli emarginati.
Dobbiamo ora aprire la discussione su questo tema che non è meramente economico.
Maurizio Bruni
(mercoledì 22 aprile 2020)