La banderuola
In politica, cambiare opinione è un sacrosanto diritto di tutti, poiché, come è noto, solo le pietre non cambiano opinione. Ma come sempre, la quantità diventa qualità: i continui cambiamenti portano a diventare una banderuola, diventano trasformismo e opportunismo. I “partiti”, da trent’anni a questa parte, sono visti come autobus da prendere per arrivare in un posto, che sia il consiglio comunale, quello regionale, o il Parlamento.
I cosiddetti “partiti” (ahimè, nessuno escluso) sono diventati i veicoli del carrierismo, dell’arrivismo: l’ambizione sfrenata di voler raggiungere con ogni mezzo posti elettivi o di comando, notorietà. E il sistema è in salita: non si cerca di fare al meglio nel posto che si occupa oggi, si guarda subito al posto che si potrebbe occupare domani, e si passa il tempo a trafficare di conseguenza, e così via. E anche i posti nel “partito” sono il trampolino di lancio per arrivare nelle istituzioni che contano: chessò, da segretario provinciale si punta subito al consiglio regionale (lautamente retribuito) e da questo subito al Parlamento. In dieci anni si parte da un incarico di partito e si arriva al Senato.
Siamo ai mestieranti della politica, quelli che usano la politica per i loro fini personali, di carriera e di guadagno. E non prendo in considerazione quelli che lo fanno per guadagni illeciti, che esistono, ma sono, a mio parere, una esigua minoranza. Sono invece tanti quelli che non vedono la politica come la più alta espressione dell’attività umana, fatta di ideali, di valori, di passione, di impegno, di servizio per gli altri, per il Paese.
Politica, passione e responsabilità
«Se non si è portatori di una visione storica e di strumenti di analisi culturale e di un serio e coerente patrimonio di valori e di idealità su cui fondare programmi di governo, la politica si fa asfittica e di corto respiro ed esposta alle degenerazioni, anche in senso morale, del potere quotidiano. La politica mette così a rischio – dice Thomas Mann – la sua componente ideale e spirituale, la parte etica e umana della sua natura, di cui peraltro essa non potrà mai spogliarsi del tutto».
La politica non è un mestiere qualsiasi, è la professione di idee, di valori, di opinioni, maturati nell’esame e nello studio della realtà della vita. La politica non è improvvisazione, impreparazione, superficialità, faciloneria; non si affronta la politica senza studiare, senza conoscere, senza approfondire, senza conoscere il passato e senza la capacità di indagare il presente: il dilettantismo è la negazione del valore della politica e dell’arte e dell’attività di governare, di amministrare la cosa pubblica.
Affidare la politica, il governo della comunità, a gente improvvisata, incompetente, ai dilettanti significa esporre la collettività a rischi e pericoli, senza le precauzioni doverose e necessarie, e mandarla ad una rovina quasi certa. Per dirla come Max Weber, la politica vuole vocazione e alta professionalità: l’etica della convinzione e l’etica della responsabilità. Di tutte e due queste qualità, erano privi, molti dei protagonisti del dibattito parlamentare di questi giorni.
L’analisi differenziata
Forse con la caduta del muro di Berlino, il linguaggio della politica non si è adeguato alla caduta della contrapposizione ideologica. Eppure anche in quell’epoca di forti passioni e tensioni politiche e ideali non è mai venuta meno la capacità di fare una analisi differenziata. Nella pratica del vecchio PCI, ti insegnavano a distinguere tra moderati, conservatori e reazionari, a non confondere un avversario politico con un nemico mortale, a non catalogare come fascista quello che è reazionario, a non definire come nemici della democrazia tutti quelli che non appartengono a un fantomatico quanto inesistente “popolo della sinistra” Mi vengono in mente le lezioni e le testimonianze su “Fascismo e antifascismo” (edizione Feltrinelli) che starebbero bene in una scuola di politica.
Le forze progressiste devono – come scrive Luca Ricolfi – “considerare se stesse come portatori di un progetto politico, anziché come depositari esclusivi del bene comune”, consapevoli che si possono sconfiggere gli avversari con la forza delle idee senza demonizzarli. Come del resto, la sinistra, il campo progressista “anche per responsabilità della cosiddetta società civile che – attraverso appelli, girotondi e sardine varie – ha ritenuto di dover gridare al pericolo per la democrazia ogni qualvolta all’orizzonte si è profilato il rischio che a vincere non fossimo noi, i “sinceri democratici”, unici interpreti degli interessi generali del Paese, unico presidio contro le tentazioni autoritarie della destra.“
Il problema della politica vi è certamente, per quegli scappati di casa delle 5S, che hanno anche questioni di preparazione culturale e di capacità, prima di analisi e poi operativa, ma vi è anche per le forze della sinistra, per la quale rimane difficile un rapporto equilibrato con i temi della democrazia, della libertà, dello stato di diritto e del riformismo.
Il Paese “là fuori”
Mi sono fatto male da solo, ho ascoltato tutto il dibattito alla Camera e al Senato. Le dichiarazioni di Conte erano modeste, un elenco di cose fatte e da fare: niente politica, nessuna visione del futuro, nessun idea del ruolo dell’Italia in Europa e nel mondo, un inquilino di Palazzo Chigi che non vuole farsi sfrattare, costi quel che costi. Gli interventi erano tanti compitìni, scritti in precedenza, e, con abbondante e superflua retorica, dichiarazioni scontate.
Mi sembrava di assistere alla “corrida” di Corrado : si parla per i compagni di gruppo, per ottenere gli applausi, gli abbracci, le pacche sulle spalle. Scene varie di vita: un senatore parla nell’emiciclo e dietro, per tutto il periodo, c’è un senatore in piedi appoggiato al banco al telefonino, e la sua telefonata è durata più dell’intervento; di lato, un altro senatore al telefono dal suo scranno. Ma non si possono vietare i telefonini in aula?
E naturalmente, assembramenti nell’emiciclo, sui banchi, nei corridoi, in barba alle norme che valgono per gli altri, ma non per deputati e senatori. E tutti a parlare del Paese “là fuori”. una stupida contrapposizione tra il Palazzo e il Paese reale. Se hanno tanta pena di stare nel Palazzo, lontano dal Paese reale, perché non si dimettono e non se ne tornano al paesello? Perché molti di loro hanno vinto la lotteria, entrando in quell’aula. Molti di loro in 5 anni si fanno quasi 600.000 euro di stipendio: ma quando mai Di Maio – per citarne uno – avrebbe visto tanti soldi ?
Retorica e politica
Quelli che continuano a dire che il Paese reale è fuori, sono retorici e bugiardi, perché sono lì nel Palazzo perché quel Paese reale li ha votati: loro sono parte di quel Paese reale e quindi rappresentano a tutti gli effetti il Paese, piaccia o non piaccia. Non mi piace, ma così è.
Il Palazzo è lo specchio del Paese reale, e il Palazzo non è peggio della società civile. Ed è così che in queste aule non si fa politica, ma si fa propaganda: non sono più abituati a parlare di politica e soprattutto a farla. Gli unici interventi fuori dai binari prevedibili sono stati quello di Pier Ferdinando Casini, (che ha invitato Conte a trovare un modo di ricucire con Italia Viva) e di Gaetano Quagliarello (che ha proposto un governo di unità nazionale).
Nessuno li ha ripresi fino all’intervento di Renzi, molto chiaro, che pur non citandoli, si è detto disposto a discutere per trovare soluzioni di governo più forti e stabili, più efficaci ed efficienti. Come ho trovato ben argomentata la dichiarazione di voto di Teresa Bellanova: chapeau !
“Dammi tre minuti”
Il livello del dibattito era ben illustrato da un articolo di Mattia Feltri su “La Stampa” del 21 gennaio dal titolo “Dammi tre minuti”:
“Alcuni, pochi, si sono stupiti e irritati alla decisione del Senato di commemorare Emanuele Macaluso col patrimonio di tre minuti a gruppo. Ma non ci dev’essere stupore né irritazione, è soltanto la necessaria conseguenza di un Parlamento che per i due giorni precedenti, lunedì e martedì, aveva intessuto la discussione più misera e futile che quelle mura ricordino.
Non è stata cattiveria, stavolta nemmeno pregiudizio, piuttosto l’inconsapevolezza e l’analfabetismo da cui il Parlamento è animato, ieri e i giorni prima e prima ancora. Semplicemente non lo sanno. Non sanno che allora era meglio lasciar perdere, che un necrologio bacioperugina è buono per un tweet, che poi è la misura dell’impegno, dell’attenzione e della capacità di approfondimento nella stragrande maggioranza di loro.
Non sanno chi era Macaluso, che abbia attraversato nei suoi novantasei anni, che abbia pensato, detto, scritto, quale fu il suo ruolo dentro il Pci e dopo il Pci, nel sindacato, nel giornalismo, nella saggistica, nella vita di questo paese e di molti, di destra o sinistra, cui è stato concesso il privilegio della sua compagnia.
Non sanno, soprattutto, che il tempo della commemorazione di Macaluso era finalmente ben speso, e non per parlare di Macaluso e basta, ma per cercare di uscire dal rimbambimento dell’eterno presente in cui sopravvivono, per salvarsi dal loro ringhio recriminatorio, e scoprire che è stato e dovrebbe essere il posto in cui siedono, e che è stata e dovrebbe essere la sacralità delle istituzioni, e quali altezze ha comportato e dovrebbe comportare.
Sono senatori, come lo fu Macaluso, e non lo sanno.”
Dov’è la politica?
Appunto, la cosa mi è apparsa evidente, che salvo le poche eccezioni di cui ho parlato prima, non c’era la politica e non c’erano i partiti, quelli che – come dice la Costituzione – “concorrono a determinare la politica nazionale”. E devono farlo “con metodo democratico”, ovvero nelle forme previste dalla Costituzione e con strutture partitiche democratiche. Mai più i Costituenti, dopo la dittatura di Mussolini e del fascismo, pensavano che si andasse ai “partiti personali”, in cui le forme di consultazione della “base”, degli iscritti che liberamente si associano, sono di fatto eliminate, e la volontà politica si esprime nei twitter, nei post o nelle interviste, magari di bonzi orientali dal loro letto di casa.
Ed è difficile pensare alla politica e alla democrazia senza la spina dorsale dei partiti, chiamati ad organizzare la funzione primaria di una politica autenticamente democratica, la partecipazione alla gestione del Paese, su una visione condivisa. Così è in Germania: basta guardare alla scelta del successore della Merkel in Germania, nel congresso della CDU, l’unione cristiano-democratica, o alla SPD, il più antico e grande partito della Europa occidentale, che ha quasi 50 milioni di euro dalle quote di adesione degli iscritti. e 50 milioni di fondi statali (dicono che esiste anche il finanziamento pubblico dei partiti, in Germania!).
“Nessuna assemblea legislativa può esprimere indirizzi né governi senza il vincolo di partiti strutturati, coesi al loro interno” scrive Michele Ainis
Partiti “spuma e schiuma”
In questi giorni mi è venuto di ripensare a quel genio di “Wolter” Veltroni che teorizzava il “partito leggero” (demonizzando il “partito solido”, come la struttura organizzativa del Pci, fatta di sezioni, di organismi provinciali, regionali e nazionali). Scriveva Giorgio Dell’Arti l’11 aprile 2008 sulla “Gazzetta dello Sport, diretta da Carlo Verdelli: “Lui, o qualcuno per lui, ha coniato l’ espressione partito liquido… Dibattito perenne, continuo ricorso alle primarie, niente tesseramenti o tesseramenti all’ acqua di rosa, niente correnti interne… La direzione, la segreteria, il comitato centrale a che servono se non a limitare il potere del leader? L’ esempio, Veltroni ce l’ ha di fronte: Forza Italia, un partito talmente poco partito che può cambiar nome e definizione senza che nessuno si scomponga più di tanto.”
Ma noi siamo oltre i partiti personali o liquidi, siamo tornati a quelli che Giovanni Giolitti chiamava i partiti “spuma e schiuma”, ovvero delle bolle d’aria che scompaiono.
“La colpa, caro Bruto, non sta nelle nostre stelle, ma in noi stessi” “Buona notte, e buona fortuna.
Luigi Corbani
(lunedì 1 febbraio 2021)