L’emergenza pandemica non sembra dare motivo ai nostri (soi disant) governanti di mettere la testa a posto. Parliamo di nomine nelle società a partecipazione statale. O, meglio, di quelle società che – pur avendo una sostanziosa partecipazione dello Stato, ma comunque di minoranza, ancorché qualificata – sono quotate in Borsa (anche in Borse estere) e hanno nel loro capitale importanti investitori internazionali.
Parliamo di Eni, Enel, Poste, Leonardo, Terna, e altre. I vertici di queste società scadono con le assemblee di approvazione dei bilanci 2019 e, quindi, a maggio di quest’anno.
Da mesi si assiste a una rissa per la designazione dei muovi vertici (o per la conferma di quelli attuali), degna di zuffe da stadio, che vede protagonisti partiti, pezzi di partiti, correnti di partiti, singoli esponenti di partiti e lobby trasversali e sempreverdi (ogni allusione ai residui morenici della P2, P3, P4, ecc. non è casuale).
Prima: “cambiamo tutti e tutto” del Movimento 5 Stelle in barba a ogni considerazione di merito e di opportunità. Il PD, partner di Governo, dilaniato da rivendicazioni particolari, pressioni esterne e concorrenza spavalda di Renzi ed ex leader (D’Alema era addirittura dato candidato alla Presidenza di ENI).
Poi: “ cambiamo qualcosa” con la stessa assenza di reali motivazioni e le stesse dinamiche competitive.
Più recentemente: “spostiamo le assemblee di qualche mese così abbiamo più tempo per decidere” senza minimamente prendere in considerazione i vincoli statutari delle varie società, il dettato del Codice Civile, gli interessi degli azionisti (tra cui lo stesso Stato italiano) a incassare i dividendi e gli evidenti conflitti con stakeholder nazionali e internazionali. Tutti d’accordo, pare, tranne poi rinculare al tintinnar di sciabole (o di telefoni) da parte degli investitori internazionali, decisi ad abbandonare il Paese dove, con evidenza, non vige uno Stato di diritto.
L’ultima trovata, del venerdì di Passione: “confermiamo tutti per un anno e poi decidiamo”. Questa viene attribuita a una velina di Rocco Casalino spacciata all’Ansa e, quindi, a una posizione di Giuseppe Conte.
Sembra rientrata anche questa boutade.
Ma prendiamola in considerazione un solo momento e all’unico scopo di capire in che mani siamo finiti. Un esempio per tutti: l’ENI. L’unica società, tra quelle citate sopra, con Leonardo, che non scarica in bolletta, e quindi sui consumatori, i propri investimenti e i propri costi. L’unica società, insieme a Leonardo, veramente esposta alla competizione internazionale in mercati quanto mai complicati.
Il Ceo di Eni, Claudio Descalzi, ha recentemente presentato la strategia del Gruppo al 2050 con revisione al 2035, perché questo è l’orizzonte temporale nel quale società di queste dimensioni e attive in quel business debbono pianificare il proprio futuro. Il nuovo CEO di BP, l’irlandese Bernard Looney, è stato nominato a febbraio di quest’anno (ma era stato ingaggiato un anno fa) con un mandato di 10 anni (tranne revoca per scarsi risultati). Tanto per date un’idea di come si muovono i concorrenti di Eni.
Eni al 20 febbraio 2020 aveva nel proprio capitale lo Stato al 30,10%, investitori istituzionali (internazionali) al 56,28%, investitori retail al 11,84%.
Ora, chi va a spiegare a quegli investitori che i loro destini finanziari sono condizionati da un Governo che vive alla giornata e che gioca con società del calibro di Eni come se si trattasse della drogheria dell’angolo?
Come minimo, costoro venderanno le azioni Eni nel loro portafoglio e investiranno in altre società con una governance più affidabile.
Potrebbero anche promuovere class action a tutela dei propri interessi.
Potrebbero presentarsi in Assemblea e votare contro e battere il Governo italiano. È vero che la golden share dà dei privilegi al nostro Tesoro. Tra questi la presentazione delle liste per i componenti del Consiglio di Amministrazione e dei vertici. Ma nessuno dei nostri (soi disant) governanti ha considerato che l’ordine del giorno delle assemblee di queste società prevede per Statuto due votazioni distinte; una per le liste e una per la durata del Consiglio di Amministrazione. I fondi internazionali (in maggioranza) potrebbero pertanto votare le lista e imporre la durata statutaria dei triennio.
È già successo nel 2014 in Eni e in Leonardo sul tema dei requisiti di onorabilità degli amministratori. Il Governo (Renzi) andò in minoranza e vinsero i fondi internazionali.
Dunque: in che mani siamo?
Mani di fata. Honi soit qui mal y pense !
Non per la leggiadria, ma per la fantasiosa sensazione di vivere in un Paese di favola.
Dove, però, il finale della storia non si preannuncia per nulla lieto.
Pepito Sbazzeguti
(martedì 14 aprile 2020)