Possiamo far finta che non sia cambiato nulla nella vita delle istituzioni democratiche? Per anni si è andati avanti con decreti legge “omnibus” del governo, e poi con voti di fiducia a ripetizione. Il Parlamento di fatto non è un organo legislativo, ma una sede di ratifica dei provvedimenti del governo.
Si discute di autonomia differenziata, quando ormai le Regioni sono diventate un carrozzone amministrativo: dovevano essere organi puramente legislativi, sono diventati enti amministrativi centralistici. La Giunta della Regione Lombardia, senza temere alcuna contestazione, si appresta a costruire un terzo grattacielo (122 metri , 60.000 mq, 130 milioni di spesa) quando uno, il Pirellone, è semivuoto, e l’altro, il Formigone, pure. Tanto con il sistema maggioritario, il Consiglio regionale vota, a scatola chiusa, quello che vuole il Presidente e la Giunta.
In quattro anni di ostinato sostegno ai fondi privati, il Sindaco di Milano non ha mai portato una delibera sullo Stadio di San Siro in Consiglio Comunale. Il marchese Sala del Grillo tenta di svendere un patrimonio pubblico (Stadio e 280.000 mq. di aree comunali) solo con delibere di giunta, e determinazioni dirigenziali, conformi alla volontà del Sindaco. Al Consiglio comunale rimangono gli ordini del giorno e le mozioni, delle quali il Sindaco e la Giunta se ne sbattono: la dimostrazione che non c’è alcun contrappeso al cesarismo del Sindaco sta anche nel fatto che gli assessori si vedono raramente in Consiglio Comunale e il Sindaco è andato a un quinto delle sedute e ha partecipato a cinque votazioni ogni cento.
Con i soldi, si sperpera anche la democrazia. E la cosa drammatica è che non c’è indignazione. Si stravolgono le regole e le istituzioni, ma va bene tutto: salvo una piccola protesta, tutto finisce nel dimenticatoio. È davvero un Paese con la memoria corta: voi vi ricordate cosa ha detto la Prima ministra Meloni un mese fa? Però adesso ci sono paginate e talkshow sul significato della rottura tra la Signora Meloni e il suo compagno.
Un Paese con disturbi della memoria, con amnesie o perdite della memoria, dovute a carenze di politiche vere e responsabili; o a dosi massicce di antipolitica e di apolitica; o a rappresentazioni della politica come pura lotta di potere, dentro e tra le istituzioni; intossicato da folli demagogie; da vergognose ipocrisie; da individualismo egoistico; da diffuso disinteresse per la cosa pubblica; da esteso menefreghismo; da una prolifica cultura dei diritti; da un inesistente senso dei doveri; dalla furbizia elevata a metro del merito; dalla legge interpretata per gli amici e applicata per i nemici; dalla lotta alla corruzione brandita come clava verso gli avversari, senza il minimo rispetto dello stato di diritto; da una informazione al servizio dei governanti e non dei governati; da talkshow che non approfondiscono mai un tema ma che vivono sullo scontro tra analisti poco analitici, soubrette e “politici” improvvisati e impreparati.
Siamo al punto che intrattenitori televisivi, che cercano di lucrare il più possibile dalle varie televisioni esistenti, diventano bandiere sventolate dai campi avversi: e il fatto grave è che la “politica” prende le sembianze di questi furbi protagonisti che usano la “politica” per guadagnare sempre di più.
Siamo al punto che il capogruppo del Pd va in Rai ad una trasmissione della moglie, alla quale il centrodestra ha affidato una trasmissione a dir poco penosa: senza alcuna vergogna!
Una opposizione che si rispetti avrebbe fatto vedere i sorci verdi alla maggioranza, di fronte al blocco dei fondi di coesione europei destinati al Mezzogiorno o ai mancati stanziamenti per le inondazioni della Emilia Romagna.
Grandi discussioni sui massimi sistemi, tra una opposizione “dialogante” e una opposizione “dura” (a parole, ammesso che queste si riescano a capire) e alla fine le discussioni sono di puro “politichese”: campo largo, mentre c’è il camposanto delle istituzioni; centrismo, mentre si dividono in tre o in quattro all’insegna di manifesti personalismi. E il centrodestra, inconcludente, pasticcione e contradditorio, conosce fibrillazioni dovute solo alle sue interne tensioni a fini elettorali.
Vi ricordate la scelta di Calenda e Renzi della Moratti, leader del terzo polo, in alternativa al centrodestra? Non stiamo parlando di un secolo fa, ma di un anno fa. Qualcuno si è fatto un’autocritica? Non tanto per dare ragione a chi sosteneva che la Moratti era una pura operazione trasformistica, ma per superare una politica “personalistica” fatta di disinvolte giravolte, che spesso vengono confuse per “iniziative politiche” e che spesso sono solo operazioni di posizionamento personale, quando non di potere, anche solo con il 3% dei voti.
Siamo un Paese in cui il sindacato, maggioritario per via dei pensionati, più che contrattare con i datori di lavoro aumenti salariali e aumenti di produttività, tratta con il governo; da anni si chiedono allo Stato bonus o cunei fiscali, che vengono pagati dai contribuenti. Si fa la battaglia per il salario minimo quando le differenze salariali e retributive sono esplose a livelli mai visti. Banche che fanno utili giganteschi, e amministratori delegati con stipendi faraonici, mentre il pensionato deve pagare i costi alle banche per accreditare la pensione
E siccome non c’è chi è senza peccato, ecco che passa in sordina un metodo offensivo per la democrazia rappresentativa. Siamo il “Paese della Capocrazia”, della democrazia del Capo, scrive Michele Ainis su “Repubblica” del 19 ottobre 2023:
“Il presidenzialismo c’è, ma non si vede; il Parlamento si vede, ma non c’è. Succede in Italia, dove stipendiamo un Parlamento che non parla, a dispetto del suo nome di battesimo. Che non propone e non dispone, dopo l’ultimo diktat dell’esecutivo: nessun emendamento alla legge di bilancio. Divieto assoluto per gli onorevoli signori della maggioranza, guai a chi sgarra. Quanto alla minoranza, può anche scrivere un’enciclopedia d’emendamenti, tanto verranno gettati in blocco nel cestino dei rifiuti.
Perché la legge più importante dello Stato va decisa in solitudine dal Consiglio dei ministri, anzi dalla sua presidente, armata di pieni poteri. È l’evoluzione finale della nostra forma di governo: una capocrazia, una democrazia del capo.
Sarà per questo che la madre di tutte le riforme – il presidenzialismo, l’elezione diretta di chi avrà in tasca le chiavi del governo – viene continuamente annunciata e poi rinviata. Avrebbe dovuto sbatterci sul naso a settembre, poi in ottobre, adesso non si sa. Ma non ce n’è bisogno, abbiamo già in sella una presidente del Consiglio scelta direttamente dal corpo elettorale. O almeno questa è la vulgata, anche se i numeri non sarebbero d’accordo.
Difatti alle ultime elezioni gli astenuti hanno toccato un record: 36 per cento. Significa che 17 milioni d’italiani hanno disertato le urne, e significa perciò che la maggioranza di centro-destra rappresenta circa il 30 per cento dell’elettorato, pur avendo incassato il 56 per cento dei seggi in Parlamento. Un presidenzialismo col trucco, mettiamola così.
D’altronde chi ha detto che un’autentica riforma dev’essere scritta, tradotta in articoli di legge, stampata a caratteri di piombo sulle colonne della Gazzetta ufficiale? Non è vero, la riforma può anche essere tacita, inespressa. E noi italiani ne sappiamo pur qualcosa. Dopotutto, la seconda Repubblica – inaugurata negli anni di Tangentopoli, con la decapitazione di tutti i vecchi partiti – non ha mai cestinato la Costituzione della prima. Ma è un’antica consuetudine: pure il fascismo, durante il suo ventennio di potere, non si curò affatto d’abrogare lo Statuto albertino, la vecchia Carta liberale del 1848. La lasciò indenne però svuotata, disseccata, come un prosciutto appeso a un gancio nel soffitto.
Da qui un tratto del nostro costume nazionale: ormai da lungo tempo in Italia non vale la Costituzione scritta, conta piuttosto la Costituzione “materiale”. Anche se quest’ultima è una creatura immateriale, è un fantasma che non si può vedere né toccare. Ma quel fantasma regola il nostro vivere civile, e lo dirige sotto l’impero del governo. Dovrebbe esercitare il potere esecutivo; si è impadronito, viceversa, anche del potere legislativo, lasciandone alle Camere soltanto un simulacro.
Con i decreti legislativi, veicolo che trasporta i provvedimenti più importanti, dalla riforma delle pensioni alla riorganizzazione dei ministeri, dal fisco al servizio sanitario. Con i decreti legge, che in questo primo scorcio della legislatura hanno raggiunto un picco: 3,6 al mese, la media più alta della storia repubblicana. Infine con la tenaglia dei maxiemendamenti e dei voti di fiducia, che strangola la volontà del Parlamento.
Sicché, adesso, siamo all’ultima puntata. Ne è protagonista la legge di bilancio, strumento già degenerato nella prassi. Negli ultimi quattro anni non sono mai stati rispettati i termini fissati dalla legge di contabilità e finanza pubblica, sfiorandoli di varie settimane. Di conseguenza il loro esame si è rivelato monocamerale, giacché la seconda Camera ha avuto giusto il tempo d’approvarle, non di discuterne l’impianto.
Ma in Italia, quando credi d’aver toccato il fondo, non devi disperarti: puoi sempre scavare. E scavando, ecco il bavaglio per ambedue le Camere, non più soltanto una. Nel 2019 la Consulta levò un monito contro le distorsioni procedurali che infettano le leggi di bilancio. Di questo passo – disse – verrà raggiunto “quel livello di manifesta gravità” che le rende incostituzionali. Evviva, ora ci siamo.”
Ma qualcuno pensa che i giornali di informazione si scatenino in una campagna a difesa della democrazia rappresentativa? Che ci sia un qualche moto di indignazione, che ci sia un qualche forte segnale politico? Al di là delle manifestazioni in cui c’è dentro tutto, anche l’abolizione della guerra. Per l’abolizione della povertà ci aveva già pensato il governo Conte/Di Maio/Salvini.
“La colpa, caro Bruto, non sta nelle nostre stelle ma in noi stessi” “Buona notte, e buona fortuna”
Luigi Corbani
(domenica 22 ottobre 2023)