Oggi è l’otto marzo, Giornata Internazionale della Donna.
Mimose dappertutto, offerte commerciali dedicate e chiacchiere televisive. Ipocrisia in offerta speciale.
Ma la sostanza, domani, sarà ancora quella di ieri: le donne, anche nel nostro Paese, sono discriminate, penalizzate ed emarginate.
L’Italia ha due grandi problemi: la produttività (il dato più basso dell’intera Europa da circa trent’anni) e il tasso di occupazione femminile.
Penultima nell’Unione Europea per il livello di occupazione, con un tasso del 62,3% nel 2017 (ci segue solo la Grecia, con il 57,2%). La media europea del tasso di occupazione nella fascia d’età 20-64 nel 2017 ha raggiunto il 72,2%, in crescita rispetto al 71,1% del 2016. La strategia “Europa 2020” mira a raggiungere un tasso d’occupazione totale per la fascia d’età 20-64 di almeno il 75% entro il 2020. Eurostat ha segnalato che vari Paesi hanno già raggiunto o superato i loro obiettivi nazionali al 2020 sull’occupazione. Tra di questi, Repubblica Ceca, Germania, Estonia, Lituania, Lettonia e Croazia.
Ma l’Italia è penultima anche per il gender gap, il penultimo Paese Ue per donne occupate.
In Italia, infatti, rileva Eurostat, la differenza tra il tasso di occupazione maschile e quello femminile sfiora il 20%: solo Malta ha una differenza maggiore, del 26,1%. È stato calcolato che le perdite di PIL pro capite attribuibili ai divari di genere nel mercato del lavoro rappresentano fino al 10 % in Europa.
Di fatto sono 13,3 milioni (58%) gli occupati di sesso maschile contro i 9,5 milioni (42%) di donne. Una dinamica simile interessa anche il tasso di disoccupazione. Ancora più preoccupante il divario che emerge dal tasso di inattività (che contempla chi non partecipa al mercato del lavoro, non cercando attivamente un’occupazione). In questo caso, dal 34,8% medio registrato dall’Istat, si scende al 25% per il tasso di inattività maschile, ma si sale al 44,6% per quello femminile.
Le donne inattive sono 8,6 milioni, un numero molto simile a quello delle donne che un’occupazione ce l’hanno. Probabile che in questa statistica vengano comprese anche le donne impegnate in lavoro nell’ambito domestico.
Il punto decisivo è che il nostro Paese da anni non predispone un piano per l’aumento della occupazione femminile. Non parliamo dell’ultima manovra di bilancio che non si pone neanche lontanamente il problema della crescita economica e sociale e dello sviluppo civile e culturale. Poi ci stupiamo che il PIL italiano sia sempre inferiore a quello degli altri Paesi europei, sia quando è con segno più che quando è con il segno meno.
Affrontare il problema di un aumento della occupazione femminile (e nel contempo l’assurdo divario salariale tra donne e uomini, un retaggio di tempi medievali) significa affrontare l’arretratezza della formazione professionale, dei servizi alla persona, della organizzazione della vita pubblica e sociale, dell’assistenza sanitaria, dell’assistenza alla maternità. Significa porsi seriamente il problema demografico, di un Paese che non cresce, che da tempo ha un saldo demografico negativo: recuperiamo solo, in parte, con la presenza degli immigrati.
Un tasso di inattività delle donne come quello italiano è l’indice di un livello di organizzazione della società arretrato.
Il fatto grave è che questo tema non se lo pongono né a livello centrale né a livello regionale: basti pensare a quante Regioni hanno carenza di asili nido, per citare un esempio.
Nell’agenda del dibattito politico e delle misure da adottare per uscire dalla crisi e dare un nuovo impulso all’economia e alla società italiana, si fa un gran parlare di occupazione giovanile (salvo poi risolvere il tutto con i navigator e il sussidio di inattività), ma mai della occupazione femminile che è la pietra fondamentale per costruire un possibile “miracolo italiano”. Oggi, per esempio, nel settore medico le ragazze under 35 sono il 60% delle presenze e si prevede che il nostro sistema sanitario (unico in Europa) sarà nel prossimo futuro al femminile, e per fortuna.
Chiudo con una proposta: invece di distribuire 500 euro a tutti i diciottenni, perché non creare per l’intero ammontare di quella spesa tante borse di studio per le lauree e per le professioni nel settore scientifico (chimica, fisica, matematica, biotecnologie, ecc.) in una proporzione uomo-donna paritaria. In quelle specialità, scarseggiano i diplomati e i laureati, che fra l’altro trovano lavoro quasi subito. Oggi i giovani di 18 anni sono lo 0,96% della popolazione italiana (581.446 su 60.483.97): i maschi sono il 52,9% (302.866) e le donne sono il 47.91% (278.580). Ebbene, con la spesa di 290.723.000 euro per il bonus di 500 euro ai diciottenni, si potrebbero creare 16.000 borse di studio da 18.000 euro all’anno (1.500 euro al mese). Di queste borse di studio almeno 8.000 potrebbero essere destinate alle ragazze. Con 900 milioni si potrebbero creare 50.000 borse di studio e di queste almeno 25.000 dovrebbero essere riservate alle ragazze. Ecco un modo per invertire la tendenza alla emarginazione delle donne dal mercato del lavoro e recuperare professionalità e innovazione tecnologica, scientifica e digitale.
Marianna Guillonk