Da mesi si è sviluppata una tempesta attorno alla gestione della Procura di Milano: ci sono aspetti di una gravità assoluta, che demoliscono la credibilità e la fiducia in un organismo delicato come la Procura di una delle sedi più importanti d’Italia, se non altro per il peso che le vicende giudiziarie su aziende e fatti economici e finanziari hanno sul resto del Paese. Si parla di prove tenute nascoste all’imputato e al Tribunale, di verbali di interrogatori non presi in considerazione perché a discolpa dell’imputato, di pressioni sul Tribunale per far condannare gli imputati.
Non sono bazzecole, non sono quisquilie, ma cose di un rilievo indubbio e gravissime: il tutto è avvenuto con un imputato dalle spalle forti, come l’Eni. Pensate se ci fosse di mezzo un cittadino comune: con quale serenità affronterebbe le indagini di una Procura che è imputata di queste accuse. Sia chiaro che il garantismo vale anche in questa situazione per i magistrati coinvolti in questa vicenda. Ma qui siamo di fronte ad una sentenza (non ad un articolo di giornale) del Tribunale di Milano in cui è scritto: “Risulta incomprensibile la scelta del Pubblico ministero di non depositare tra gli atti del procedimento un documento che, portando alla luce l’uso strumentale che Armanna intendeva fare delle proprie dichiarazioni e dell’auspicata conseguente attivazione dell’attività inquirente, reca straordinari elementi a favore degli imputati”. In sostanza il tribunale dice che il procuratore aggiunto Fabrizio De Pasquale e il pubblico ministero Sergio Spadaro hanno nascosto una prova a discolpa degli imputati.
E in tutta questa bagarre, il Consiglio Superiore della Magistratura e il Procuratore Generale della Cassazione intervengono solo per punire il pubblico ministero Paolo Storari e allontanarlo da Milano per non turbare la serenità del lavoro dei suoi colleghi. “Storari è indagato a Brescia con l’allora consigliere Csm Piercamillo Davigo per avergli consegnato nell’aprile 2020 copie word dei verbali del controverso ex avvocato esterno Eni Piero Amara, e, ad avviso di Storari, lasciati galleggiare dai vertici della Procura per evitare che la verifica di attendibilità o inattendibilità di Amara si riverberasse negativamente sull’attendibilità di Vincenzo Armanna, nel processo Eni-Nigeria, sia coimputato sia accusatore di Eni, assai valorizzato dal procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e dal pm Sergio Spadaro.” (Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera).
A questo punto centinaia di magistrati hanno sottoscritto una lettera in cui affermano che “esclusa ogni valutazione di merito, la loro serenità non è turbata dalla permanenza del collega” Storari a Milano. Cito sempre Luigi Ferrarella, di solito bene informato sulle vicende della Procura di Milano: : “Questa lettera non si può leggere come uno schierarsi pro o contro questi due altri colleghi,(De Pasquale e Spadaro) pure indagati a Brescia nell’ipotesi che non abbiano sottoposto al Tribunale del processo Eni-Nigeria taluni elementi (trovati da Storari e da lui segnalati a Greco, alla sua vice Laura Pedio e a De Pasquale) che mettevano in dubbio l’affidabilità di Armanna”
Ora, dico io, è Storari il problema ? o è la gestione della Procura? Non ci sono elementi per dichiarare che “la serenità” è turbata da una gestione su cui si esprimono negativamente tanti magistrati di Milano? Pare che però il Procuratore Generale della Cassazione e il Consiglio Superiore della Magistratura (compresi il Presidente e il Vicepresidente) non si siano accorti di nulla. Il Ministro Cartabia, dopo mesi, ha mandato gli ispettori del ministero, ma tutto tace. E qualcuno vorrebbe farci credere che, allontanando Storari da Milano e impedendogli di fare il pubblico ministero da oggi in avanti, si risolva il problema di Milano?
Io spero tanto che non ci sia un problema di appartenenza di corrente del PG della Cassazione e del Procuratore generale della Repubblica di Milano (Magistraura democratica) come alcune malelingue sostengono – e tanto meno si aspetti che il tempo e il pensionamento del Procuratore Generale risolvano il problema.
Le vicende di questi mesi ( e anni) hanno gettato un discredito sul Palazzo di Giustizia che non merita e non lo meritano anche i tanti magistrati inquirenti, bravi e capaci, che abbiamo a Milano. Dico anche che, dopo queste vicende, sarebbe una sciagura se venisse messo a capo della Procura di Milano chi pensa solo agli arresti clamorosi e a tappeto o ai titoli dei giornali, o alle comparsate televisive: non si dovrebbe fare carriera con il numero di avvisi di garanzia, ma con il numero di condanne passate in giudicato.
Tutta questa baraonda – è bene ricordarlo – è scoppiata a marzo dopo la sentenza sul caso Eni Nigeria: gli amministratori dell’Eni sono stati assolti dopo otto anni di indagini e tre di dibattimento: ben 74 udienze. Ma da trent’anni Eni è sotto inchiesta della Procura di Milano, con risultati nulli in Tribunale.
La vicenda solleva alcuni interrogativi. La procura di Milano è l’unica nel mondo che persegue il reato di “corruzione internazionale”: non mi risulta che aziende analoghe alla Eni siano sottoposte a indagini di questo tipo, in Francia, in Gran Bretagna, in Usa. E già qui, vi è una anomalia: siamo gli unici a perseguire una società pubblica per la sua attività all’estero.
Ma con queste azioni si pensa davvero di debellare la corruzione internazionale ? Non viene il dubbio che, al posto di una azienda italiana, di corsa si faccia avanti un’altra azienda che magari unge per davvero? Siamo i più bravi a farci del male? Siamo presi da una smania per cui le aziende italiane all’estero devono essere “oneste” in una situazione di feroce concorrenza internazionale in cui le aziende straniere si procurano, comunque e in qualsiasi modo, gli affari?
Fra l’altro, siamo incuranti del danno di immagine: nella vicenda compariva anche Ngozi Okonjo-Iweala, che era ministro delle Finanze nigeriano e che con il consenso decisivo dell’amministrazione di Joe Biden, è diventata la prima donna e la prima africana a dirigere il World Trade Organization. E siamo indifferenti ai problemi di rifornimento energetico del Paese. Cosa volete che conti tutto questo di fonte alla possibilità di sconfiggere la corruzione internazionale (solo presunta, peraltro) delle sole aziende italiane?
Di fronte al fatto che molte inchieste della Procura di Milano (Finmeccanica-Westland; Unicredit-Barclays; Deutsche Bank-Depfa Bank-UBS- J.P. Morgan; Eni-Saipem-Algeria; Eni-Shell-Nigeria), o della Procura di Trani (Standard&Poor’s -Fitch ) promosse con grande battage pubblicitario con la complicità di giornali e media, siano finite nel nulla, il Consiglio superiore della Magistratura non ha nulla da dire, o sono solo indagini che fanno salire la fama mediatica e quindi le quotazioni per le promozioni dei magistrati inquirenti ?
Quanto sono costate queste indagini delle Procure ? Quanto sono costate agli imputati, poi prosciolti? Solo per quest’ultima vicenda, pare che l’Eni abbia pagato 60 milioni di parcelle. Nel caso della Procura, il Ministro chiede conto dei costi? Allo Stato (inteso come organismo frutto di un patto di civile e vantaggiosa convivenza) non importa? Non importa al governo e al Parlamento ?
Aggiungo a promemoria tre articoli, molto istruttivi.
“La colpa, caro Bruto, non sta nelle nostre stelle, ma in noi stessi” “Buona notte e buona fortuna”
Luigi Corbani
(giovedì 29 luglio 2021)
La mania
(Mattia Feltri “La Stampa” 18 marzo 2021)
L’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi, e il suo predecessore, Paolo Scaroni, sono stati assolti dal tribunale di Milano dall’accusa di corruzione internazionale, e con loro tutti gli altri imputati.
Il fatto non sussiste, dice la sentenza, ovvero non sussiste la tangente da un miliardo abbondante di euro versata, secondo la procura, alle autorità nigeriane per i diritti di esplorazione di un blocco petrolifero. Da una trentina d’anni i magistrati milanesi indagano su Eni e, dopo le condanne per la celebre maxi tangente Enimont, non è che abbiano raccolto successi straordinari. Scaroni, per esempio, è sotto inchiesta da oltre un decennio perché, prima della questione Nigeria, dovette rispondere di una faccenda simile in Algeria, anche quella chiusa con niente di fatto. Non so se abbiate idea del danno di questi processi sulla seconda più grande azienda italiana, con i vertici che girano per il mondo con la fama dei tangentari pizza mandolino.
Sul Corriere della Sera un giornalista imprescindibile, Luigi Ferrarella, ci invita a non dolercene troppo: altrove le grandi aziende non finiscono sotto inchiesta, forse perché ovunque le procure (non i giudici) sono sotto il controllo del potere politico, mentre solo da noi, virtuosi, godono di totale indipendenza.
Ecco, magari dovremmo chiederci se davvero tutto il mondo sbaglia a sottomettere l’attività di indagine alla politica, fosse pure con lo scopo di proteggere le imprese strategiche per lo Stato dal rischio di una condanna, mentre da noi gli inquirenti fanno quello che vogliono, e non le proteggiamo nemmeno dalla mania del sospetto.
L’ossimoro e le élite
(Mattia Feltri “La Stampa” 20 marzo 2021)
Vi eravate scordati di Antonio Di Pietro, vero? Bè, ogni tanto rispunta, e per me è sempre festa. Sono un vecchio cronista di Mani pulite, prima giovane entusiasta, poi meno giovane critico, infine ex giovane persuaso che la rivoluzione giudiziaria fu una mezza truffa e produsse pochi benefici e danni incalcolabili.
Pierluigi Bersani, per esempio, ora parla di populismo delle élite a proposito degli avversari di Giuseppe Conte, contro il quale immagina un complotto tipo Carboneria degli Illuminati, quando a me parve populismo delle élite aggrapparsi alle inchieste per atteggiarsi a onesti contro i disonesti come unico programma di governo. E infatti, di onesto in onesto, si è arrivati a Conte. Tutto si tiene. E insomma, Di Pietro dice la sua sull’assoluzione degli imputati per corruzione internazionale contestata a Eni. È un’inchiesta che non mi ha mai convinto, spiega al Giornale, perché ci sono due modi di indagare: primo, scoperto un reato si cerca un colpevole; secondo, individuato il colpevole si cerca il reato.
Il primo è corretto, il secondo mica tanto, ed è quello applicato a Eni. Però sono modi che vanno avanti da allora, dice Di Pietro, da quando lui era un pm milanese. Interessante, perché se è così – e qualcuno ne sarebbe stupito, altri meno – se davvero a Milano si individuava un colpevole per vedere, poi, quale reato contestargli, certe espressioni un po’ triviali – toghe rosse, procure politicizzate, giustizia a orologeria – assumerebbero un più preciso, aureo significato. Anche a chiarire meglio che il populismo delle élite non è un ossimoro di oggi, è la nostra storia.
L’importanza di capire come nasce una inchiesta
(Carlo Nordio “Il Messaggero” 22 marzo 2021)
II vicepresidente del Csm, David Ermini, ha qui espresso, nell’intervista di ieri, un concetto apparentemente banale ma in realtà rivoluzionario: che nel valutare la professionalità di un magistrato vi sia anche un controllo sulla qualità e tenuta dei suoi provvedimenti. Per esempio, se tanti processi chiesti da un Pubblico ministero finiscono in assoluzioni qualcosa di quel Pm non va.
Il concetto è quasi ovvio, perché la capacità di ogni lavoratore, dall’idraulico al cardiochirurgo, si misura sui risultati che ottiene, tenendo però conto della difficoltà dell’intervento. L’avvocato che fa assolvere i suoi clienti non è necessariamente il più bravo di tutti, se accetta solo difese facili. Al contrario il nostro più leggendario principe del foro, il professor Carnelutti, ha collezionato un elenco di condanne impressionanti, perché in genere i suoi assistiti, da Graziani a Fenaroli, versavano in genere in condizioni disperate.
Lo stesso vale per gli oncologi: gli specialisti della mammella hanno una percentuale di guarigioni enormemente superiore a quelli del pancreas. Questo non perché siano più bravi, ma perché intervengono in un settore meno complesso. E così è per i magistrati.
Detto ciò, va fatta un’ulteriore distinzione, tra chi giudica e chi inquisisce. Le Corti d’Assise, che si occupano dei reati più gravi, sono formate da una maggioranza di giurati popolari estratti a sorte. Molte sentenze vengono riformate in Appello, poi annullate in Cassazione e magari riconfermate nei successivi giudizi di rinvio. Chi ha sbagliato in questo eterno andirivieni, dove la ricostruzione dei fatti è spesso controversa e la Cassazione talvolta smentisce se stessa?
Questione complessa, che non può essere affrontata e tanto meno risolta, in termini emotivi o demagogici. E infatti Ermini si riferisce solo ai giudici civili, per i quali i criteri sono più facili: il magistrato si rivela inadeguato quando non conosce i fascicoli e quando non conosce le leggi.
Superfluo dire che la sanzione, più che il suo portafoglio, dovrebbe colpire la sua carriera, e magari la sua stessa permanenza in magistratura.
Perché allora il discorso di Ermini è rivoluzionario? Perché tocca essenzialmente i Pm: e qui il discorso è completamente diverso. Il nostro Pubblico ministero ha un potere immenso, svincolato da ogni responsabilità. Quando nel 1988 abbiamo scopiazzato – malamente – il sistema anglosassone, abbiamo voluto la botte piena e anche la moglie ubriaca.
Avevamo infatti davanti due opzioni sulla struttura dell’ufficio dell’Accusa. La prima è quella americana, dove il District Attorney è, come da noi, il capo della polizia giudiziaria, e può indagare chi vuole. Con un particolare: che i suoi sostituti sono scelti da lui, e se imbastiscono processi che si concludono in assoluzioni li manda direttamente a casa.
Non solo: la sua carica è elettiva, e se quindi non si dimostra all’altezza, gli elettori non lo confermano, e cambia mestiere. Il secondo sistema è quello inglese. Li il Pm, che fino a pochi anni fa nemmeno esisteva, è indipendente, più o meno come da noi. Tuttavia non ha affatto la possibilità di iniziare le indagini, perché queste spettano alla Polizia. È Scotland Yard a fare tutto: poi presenta il pacchetto all’avvocato dell’accusa, che decide se chiedere o meno il processo. Tralascio, per ovvi motivi, di citare i Paesi dove il Pm, come in Francia, dipende dal potere esecutivo.
Orbene, nessuno in Italia ha mai fatto finora il calcolo dei costi/benefici di tante inchieste finite nel nulla, e degli insuccessi dei relativi Pm. Alcune di queste hanno comportato spese colossali, con intercettazioni e consulenze inutili, devastanti e costose; hanno distrutto famiglie, compromesso carriere politiche e professionali e magari determinato suicidi. Salvo poi rivelarsi campate in aria.
L’alibi della toga inquirente era quello solito: l’azione penale è obbligatoria. Già. Ma lo è in presenza di un reato, e nei confronti di un sospetto colpevole gravato di indizi sufficienti. Da noi talvolta è proprio il Pm che va a cercarsi l’uno e l’altro, o per eccesso di zelo, o magari per ragioni meno nobili, come le rivelazioni di Palamara hanno ampiamente dimostrato.
Per questo è interessante vedere non tanto come i procedimenti finiscono, ma come nascono, e magari perché.
La proposta di Ermini è rivoluzionaria proprio per questo: sarebbe un primo passo per valutare non solo l’efficienza e la preparazione dei magistrati, ma anche l’origine di indagini rivelatesi infondate, inutili, costose e magari persecutorie.
Temo che le resistenze saranno feroci, e saranno fondate sulla sacrale litania dell’indipendenza della magistratura, come se quest’ultima si identificasse nell’insindacabile arbitrio di indagare chi si vuole, come si vuole, e indipendentemente dalle conseguenze finali.
Un potere, come s’è detto, enorme, senza nessuna responsabilità.
Tutto giusto!
Non c’è d’aggiungere una virgola all’analisi di Corbani e agli articoli allegati.
C’è solo da chiedere come Cittadini alla Politica e alla Magistratura,in nome della Democrazia sostanziale e non solo “formale”,
QOUSQUE TANDEM…..ABUTERE PATIENTIA NOSTRA?
Avevo seguito il caso Finmeccanica India dove questi giacobini armati di imbecillita’ e malaffare sono riusciti a rovinare la vita a Orsi allora AD di Finmeccanica e a far sì che l’Italia perdesse una commessa importantissima di elicotteri che naturalmente è andata ai francesi per una presunta tangente di 50mila euro! Siamo un paese di arroganti, presuntuosi suicidi il cui unico interesse è la visibilità personale e l’interesse politico. Sono la rovina del Paese