Sembra davvero utile ragionare sui temi di organizzazione della città necessari per ripartire : certo per la necessità di riflettere ora, preparando per tempo il ritorno alla normalità, ma anche per le lamentele, nelle conversazioni tra amici e sui quotidiani, sempre più frequenti a proposito della inadeguatezza delle nostre città.
Mi trovo così a considerare (osservando un’intrinseca debolezza nella capacità delle nostre città a funzionare in tempo di virus), che il termine “smart” dovrebbe significare qualcosa di più (e di diverso) dal significato assunto negli anni recenti, ridotto cioè a misuratore del livello di utilizzo delle tecnologie informatiche nei diversi settori.
Tutti ricordiamo che nella sua fase nascente , sul finire degli anni ’90, “smart city” aveva assunto un significato quasi utopico, più vago ed onnicomprensivo di oggi, un insieme (anche disordinato) di attese e speranze riposte nelle tecnologie informatiche, che (si immaginava) avrebbero potuto consentire il ritorno ad una città (secondo la nota definizione di Aristotele) come luogo felice per eccellenza, in grado di favorire le relazioni sociali ed il miglior sviluppo delle attività, qualità e aspirazioni degli individui, verso pienezza e qualità di vita per tutti.
Istanze che sono (purtroppo) gradualmente declinate man mano che le tecnologie hanno trovato prevalente applicazione nel migliorare gli standards di efficienza in alcuni settori chiave per lo statu quo delle formazioni urbane tradizionali (rafforzandole talvolta anche nei loro intrinseci difetti), mentre non hanno fatto progressi in quei cambiamenti che pure si ritenevano altrettanto necessari.
La relativa facilità con cui le nostre città possono entrare in crisi di funzionamento, messe in evidenza oggi dall’epidemia (domani magari da problemi di altra natura), fanno riflettere sull’opportunità che l’intelligenza (umana e artificiale) si applichi su questo tema, fin da ora e nel prossimo futuro, ad un livello più profondo ed effettivamente trasformativo dei modelli urbani oggi preponderanti.
A questa riflessione di fondo, che resta senza risposte immediate, fanno tuttavia da corollario alcune ricadute random , certune di ordine pratico, altre di carattere eminentemente speculativo : una tra le prime è suggerita dalla casuale rilettura di un articolo di Giorgio Cozzi apparso sulla “Lettura” durante il primo lockdown contenente un’intervista a David Quammen, in cui l’autore del libro “Spillover – L’evoluzione delle pandemie” (nel quale aveva immaginato qualche anno fa ciò che sta accadendo ora) sostiene che ci dobbiamo aspettare prossimamente una possibile sequenza di epidemie altrettanto pericolose per l’uomo.
Vien allora da pensare che, se dobbiamo prepararci ad una situazione di alternante guerriglia contro i virus, “smart”, o meglio “clever city” sarà quel modello di formazione urbana in grado di rispondere con immediatezza ed efficacia (cioè mantenendo anche un’accettabile qualità di vita per le popolazioni) a questo nuovo stato di cose.
Ho utilizzato il termine formazione urbana non tanto per non ripetere continuamente la parola città, quanto perché non è scontato che il nostro futuro debba essere necessariamente quello previsto (da parecchi anni), con l’umanità concentrata prevalentemente nelle città-megalopoli di decine di milioni di abitanti : il modello di regione urbana policentrica è un’alternativa reale che potrebbe dare miglior risposta agli obiettivi delineati, anche e soprattutto nel nostro Paese.
E di qui entrano in gioco anche le riflessioni di carattere speculativo: nella lezione introduttiva al Laboratorio di Progettazione Architettonica Tecnologico Ambientale al Politecnico la prima immagine che spesso proiettavo e commentavo era la ricostruzione della mappa urbana di Priene – nella pianura del Meandro – al V° secolo a.c. : ne descrivevo i caratteri fondativi, gli spazi e le attrezzature pubbliche; le modalità di funzionamento e le relazioni economiche, sociali, culturali, come esempio e modello insuperato di sostenibilità ambientale. Impossibile da ripetere oggi, certamente, ma da cui si può tuttavia imparare applicandone criteri ed assunti di fondo alle situazioni contemporanee.
Forse, come suggerisce spesso il sociologo Giuseppe Bonazzi , è davvero arrivato il momento di riprendere le riflessioni su Utopia, non tanto nella sua accezione di non-luogo, come desiderabile astrazione, quanto piuttosto come eu-topia , luogo-felice.
Claudio Fazzini
(martedì 2 febbraio 2021)