Lettera a Franco Cologni
Il giornalista Claudio Castellacci risponde all’articolo del nostro collaboratore “Anche le nostre radici culturali affondano nel pop”
Caro Franco, hai parlato del diavolo (Donald Trump) e, come dice il proverbio, spuntano le corna. Nel tuo ultimo intervento nel sito di “Il Migliorista” ne hai dato una esilarante versione “pop” per introdurre il mio ultimo “libro-che-non-c’è” (sulla nascita della cultura pop a Los Angeles), l’almanacco “fantasma” che, come sai, faccio stampare ogni anno come dono natalizio per gli amici. E di questo ti ringrazio.
La cosa che mi ha colpito è che non hai fatto in tempo a scrivere, cito testualmente: «se non fosse un personaggio tragico, essenzialmente pericoloso per la sanità mentale ed economica del globo, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump sarebbe fondamentalmente un personaggio pop», ed ecco che – proprio come il cartone animato Taz, il paffuto e rissoso Diavolo della Tasmania che citi nel tuo articolo – il Nostro ne ha combinate (si fa per dire) un paio delle sue, dimostrando, appunto, la sua erratica pericolosità.
In uno dei suoi tanti scatti d’ira, questa volta apparentemente infiammati dalle immagini televisive delle violenti proteste che si stavano svolgendo a Baghdad davanti all’ambasciata americana – ma molto più probabilmente per l’ansia di distrarre l’attenzione dell’opinione pubblica dal procedimento per la sua messa in stato di accusa (impeachment) da parte del Congresso – ha dato l’ordine di uccidere il generale iraniano, capo delle forze Quds, l’unità di élite delle Guardie Rivoluzionarie, Qassem Suleimani (a proposito, tu sai perché diavolo tutti si ostinino a pronunciarne il nome alla francese con l’accento sulla “i” finale? Mistero). E il mondo si è trovato sull’orlo del baratro di una guerra di quelle che si sa come e quando cominciano, ma non quando e come finiscono.
Capisco che citare l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo-Este, nel 1914, a Sarajevo, sia un parallelo magari prevedibile e scontato, ma visto come è finita la storia – con 16 milioni di morti, più di 20 milioni di feriti e mutilati (fra cui annovero anche mio nonno) – “repetita iuvant”. Evidentemente Donald Trump si sente al di sopra della storia e, tanto per non farsi mancare niente, ha peggiorato la situazione minacciando, in caso di ritorsioni, di bombardare i siti culturali iraniani.
All’intimidazione ha risposto a stretto giro di tweet, l’Unesco che gli ha ricordato che colpire siti culturali è un crimine di guerra (articolo 28 della Convenzione dell’Aja del 1954), e che è perseguibile non solo chi lo commette, ma anche chi lo ordina.
Certo sappiamo che la storia non è proprio il forte dell’inquilino della Casa Bianca, ma se solo fosse andato al cinema a vedere il film “Monuments Men” avrebbe scoperto come proprio gli Stati Uniti, durante il secondo conflitto mondiale, avessero creato e inviato sui campi di battaglia in Europa il reparto militare MFAA (Monuments, Fine Arts and Archives) con una precisa missione: salvare i capolavori dell’arte. Ma erano anni, quelli, in cui, come dice il personaggio interpretato da George Clooney, l’America combatteva, credendoci, per la cultura e per una vita migliore per tutti.
Aveva scritto il generale Dwight Eisenhower, il 29 dicembre 1943, all’indomani della sua nomina a comandante supremo delle truppe alleate in Europa, in una storica circolare inviata alle truppe: «Oggi noi combattiamo in un paese che ha grandemente contribuito alla nostra eredità culturale, un paese ricco di monumenti che con la loro creazione hanno aiutato, e ora alla loro veneranda età illustrano, la crescita di una civiltà che è la nostra. Siamo chiamati a rispettare questi monumenti, cercando di risparmiarli, nella misura in cui la guerra lo consente». Altro che bombardarli a piacimento.
E che dire dell’oscuro capitano di artiglieria Anthony Clarke che (era il 1944), memore del disastro di Montecassino, sfidando la corte marziale e soprattutto le truppe naziste in ritirata, assediate dai suoi uomini nel borgo toscano di Sansepolcro, decise di disobbedire agli ordini di cannoneggiare la città, raccontando via radio al suo quartier generale e al suo comandante di non vedere né truppe tedesche, né obiettivi sensibili da bombardare, perché si ricordava di avere letto in un libro di Aldous Huxley (“Along The Road”, del 1925) che in quella cittadina si trovava «Il più bel dipinto al mondo», la “Resurrezione”, un affresco di Piero della Francesca. Per la cronaca, il giorno dopo i tedeschi si ritirarono e Clarke entrò in città senza colpo ferire, avendo risparmiato, e il mondo civile gliene sarà eternamente grato, la “vita” di un’opera inestimabile.
È vero, sì, che nel corso della storia l’arte ha dovuto molto spesso “fare la guerra”, diventando terreno di conquista e di razzie (ne sapevano qualcosa i nazisti che, comunque, le opere d’arte non le distruggevano, se le portavano a casa), ma da lì a solo pensare e arrivare a minacciare di bombardare (“a sangue freddo” avrebbe detto Truman Capote) opere patrimonio dell’umanità ce ne corre. A meno di non avere nel proprio DNA il tarlo del fondamentalismo talebano (di cui, purtroppo, si può essere affetti anche senza essere afghani), come quello che portò alla distruzione dei Buddha giganti di Bamiyan, o quello che, in un altro contesto, portò allo scempio del Museo di Mosul, in Iraq, o della moschea di Nabi Yunis, oppure, ancora, all’incendio della biblioteca di Timbuctu, nel Mali. A sangue freddo, appunto.
Certo, il Pentagono ha subito fatto marcia indietro facendo capire, fra le righe, che quella era una delle tante boutade del loro comandante in capo, che, come spesso accade, era stato frainteso. E sulla faccenda è sceso un imbarazzante silenzio. Che fa il paio con quello del capo della nostra (imbarazzante) diplomazia alacremente impegnato, mentre nel mondo rullano tamburi di guerra, a organizzare vertici su rimborsi e scontrini.
Il tuo,
Claudio Castellacci
(sabato 11 gennaio 2020)