Una volta tanto capita che anche “il Manifesto” pubblichi una notizia. È accaduto oggi, domenica 12 maggio, quando il quotidiano comunista ha rotto il silenzio dei media sul prossimo cambio della guardia alla segreteria generale del Senato.
Elisabetta Serafin, ormai alle soglie della pensione, lascia palazzo Madama per assumere la presidenza della Saipem, una società quotata in Borsa controllata dalla Cassa depositi e prestiti. Secondo “il Manifesto”, il successore sarebbe il suo vice, Federico Toniato.
Storie di ordinaria burocrazia? Solo in apparenza. La segreteria generale del Senato guida il lavoro degli uffici, oggi ancor più prezioso e delicato di ieri in seguito alla riduzione del numero dei parlamentari, spesso più inesperti dei predecessori.
Il post Serafin merita quindi una riflessione che vada oltre la lettura de “il Manifesto”, interessante ma tutta politica centrata com’è sui rapporti del candidato con il centro-destra. Sia detto tra parentesi, questo articolo non compare nella rassegna stampa del Senato curata dal servizio stampa al quale sovrintende lo stesso Toniato: recupererà lunedì.
Martedì 14 maggio, dunque, si tiene l’assemblea della Saipem all’esito della quale Serafin verrà innalzata alla presidenza. Una promozione anche economica perché l’emolumento di Saipem si aggiungerà alla ricca pensione del Senato, più o meno equivalente allo stipendio che ormai supera i 600 mila euro l’anno al lordo di imposte e contributi.
In quello stesso 14 maggio, si dovrebbe riunire l’Ufficio di Presidenza del Senato, composto – lo ricordiamo – dal presidente, Ignazio La Russa, dai 4 vicepresidenti, dai senatori questori e dai senatori segretari. Una piccola folla.
Ora, dal 1955 al 2011, la nomina del segretario generale – usiamo il maschile in omaggio a Giorgia Meloni che rifugge dalla femminilizzazione delle parole per solito maschili – è avvenuto all’unanimità. È stato il centro-destra a rompere la tradizione, appunto nel 2011, con la nomina di Serafin che la spuntò per il rotto della cuffia su Fabio Garella.
Il presidente La Russa ritenterà il blitz? E proporrà la promozione del delfino designato? La logica dello spoil system, comprensibile in tante posizioni, lo è meno nelle alte burocrazie istituzionali, perché ne indebolirebbe la terzietà e dunque l’autorevolezza. Ma se pure La Russa la volesse (legittimamente) praticare, sarebbe (politicamente) auspicabile che, prima di procedere alla nomina, proprio il presidente promuovesse l’adeguamento del Testo unico delle norme per il personale del Senato, meglio se d’intesa con tutti i gruppi parlamentari.
Questo Testo, infatti, appare del tutto superato laddove non indica scadenze al mandato del segretario generale, eleggibile a maggioranza semplice, e al tempo stesso stabilisce che la sua eventuale revoca avvenga solo con la maggioranza qualificata dei due terzi dell’Ufficio di Presidenza. La segreteria generale del Senato è dunque una carica sostanzialmente a vita, o meglio fino alla pensione, figlia di tempi diversi dagli attuali.
Basti pensare che la Camera dei deputati ha deciso già 9 anni fa di porre una scadenza di 7 anni non rinnovabili alla carica di segretario generale e la Banca d’Italia aveva ancor prima stabilito un termine di sei anni, rinnovabile una sola volta, alla carica di Governatore. Va ricordato che la riforma di palazzo Koch avvenne per il meritorio impulso dell’allora ministro dell’Economia, Giulio Tremonti. Del resto, l’ANAC ha fatto del regime delle scadenze uno degli architravi del corretto funzionamento della pubblica amministrazione.
Se il post Serafin portasse sulla poltronissima del Senato con un colpo di maggioranza una persona che avesse davanti a sé ancora decenni di carriera, si avrebbe la privatizzazione de facto di una delicatissima funzione di interesse pubblico. In nome dello spoil system si finirebbe per congelare lo stesso spoil system. Una beffa.
Senator
(domenica 12 maggio 2024)
P.S. Ove mai evitasse il putsch (legale) a Palazzo Madama e si facesse promotore di una simile apertura, il presidente La Russa renderebbe pure un servizio alla causa della Riforma Costituzionale: porgere un ramoscello d’ulivo alle opposizioni darebbe forza alla componenti (riformisti Pd, Azione, Italia Viva) che lavorano per il dialogo istituzionale con la maggioranza anziché alla contrapposizione frontale.