Stabilità e alternanza Sarebbe ora, a mio parere, che questo Paese risolvesse alcune delle anomalie che lo caratterizzano. Non secondarie sono quelle del suo sistema elettorale e delle forze politiche italiane. Forse, con modestia, imparare anche dalle recenti elezioni tedesche sarebbe cosa buona e giusta.
Dopo cinque leggi elettorali in trent’anni, forse imparare da un sistema elettorale misto maggioritario-proporzionale come quello tedesco sarebbe utile per evitare altre storture nel nostro sistema politico istituzionale.
Appaiono ridicoli i discorsi sulla frammentazione del sistema politico rappresentativo della Germania: otto partiti nel Bundestag, quindici gruppi nella Camera dei deputati italiana. E in Germania le coalizioni si formano dopo il voto, come era in Italia fino al 1992.
Un sistema che ha portato alla stabilità del sistema politico dal 1949 ad oggi, con otto cancellieri: Konrad Adenauer (5 governi), Ludwig Erhard (2) Kurt Georg Kiesinger (1), Willy Brandt (2), Helmut Schmidt (2), Helmut Köhl (5), Gerhard Schröder (2) Angela Merkel (4). In definitiva, 23 governi, di cui cinque a direzione democristiana e tre a direzione socialdemocratica, anche con tre governi di Grosse Koalition (2005-2009, 2013-2018, 2018-fino alla formazione del nuovo governo)
Una stabilità a cui si è accompagnata una alternanza di governo. E questo non come il frutto di sistemi elettorali, studiati per favorire una colazione piuttosto di una altra come è accaduto in Italia negli ultimi trent’anni, ma come risultato di scelte ideali, culturali, e programmatiche, di scelte politiche.
Il percorso dei socialdemocratici tedeschi I socialisti tedeschi hanno rivisto le basi ideologiche, i riferimenti valoriali, le basi sociali e culturali del loro partito, da Bad Godesberg nel 1959 al Programma di Berlino nel 1989 al Programma di Amburgo nel 2007.
Hanno fatto un lungo percorso che li ha portati a vincere le elezioni, a perderle e a caricarsi anche il fardello della coalizione con la CDU/CSU di Angela Merkel, nell’interesse del Paese. Hanno fatto scelte politiche coraggiose, compiendo una marcia non priva di errori.
Ma hanno capito che non si può inseguire la “sinistra”, o avere il complesso di chi è più a sinistra di te; la partita si vince con un programma di giustizia sociale e di diritti che unisca le classi lavoratrici e il ceto medio, che punti a recuperare consensi nell’area moderata.
I socialdemocratici tedeschi sono lì a smentire chi li dava per spacciati, anacronistici, retaggio del passato. Certo hanno subito delle sconfitte pesanti: quella del 2017, in cui la SPD condotta dall’amico dell’Italia, Martin Schulz, raggiunse il 20,5%, il peggior risultato dal dopoguerra.
Ed oggi, pur avendo vinto le elezioni come primo partito di Germania, il risultato dimostra cha hanno da riconquistare posizioni nell’Est, in Sassonia (preoccupante presenza di Alternativa per la Germania), o in altri Länder, come nel Baden-Wurttemberg; e devono cercare di formare un governo con i Liberali e i Verdi, con cui peraltro sono stati già al governo.
L’anomalia italiana Ma anche l’Italia ha avuto un forte stabilità politica (pur cambiando i governi), basata sulla egemonia della Democrazia Cristiana (al governo con i suoi alleati). Certo, c’era il fattore K (comunismo), che era un deterrente per l’alternativa, ma qui vi era l’anomalia del più forte partito comunista d’Europa, separato dal Partito socialista, che a sua volta stava al governo con la DC e stava insieme ai comunisti nei comuni, nel sindacato, nelle cooperative, e in tante altre strutture.
E questa separazione del movimento operaio italiano, in due tronconi, era l’anomalia che non si è voluto superare negli anni sessanta, durante l’avvio del centrosinistra o dopo i fatti del Cile, la vittoria del referendum sul divorzio e l’affermazione del Pci nelle elezioni del 75-76. Quello fu il momento in cui si doveva fare un passo decisivo verso l’unità, superando la scissione del 1921, senza annessioni o subalternità, ma in un confronto politico e ideale che portasse ad affrontare le sfide presenti (il terrorismo e la crisi economica) e il futuro del Paese.
E invece prevalse la linea del “compromesso storico” con la DC (che durò lo spazio di un mattino) e, lo dico ai tifosi del maggioritario, la tesi che con il 51% non si governa. Tutte cose che peraltro si potevano portare avanti in una linea di “unità socialista”, che diventò urgente dopo i fatti di Tian An Men.
Il 1989. Invece, nel giugno-luglio 1989, si massacrarono coloro (come il sottoscritto) che nel Pci sostenevano il cambiamento del nome e della politica per approdare, dopo il lungo percorso avviato con la “via italiana al socialismo” , al socialismo democratico europeo, insieme con i socialisti italiani.
A rileggere le dichiarazioni di alcuni “dirigenti” (che hanno sempre ragione e galleggiano in ogni situazione), c’è di che pensare. Da D’alema (“finchè Craxi potrà permettersi di chiamarsi socialista, ognuno in Italia potrà chiamarsi col nome che vuole”) a Veltroni (“Il problema del nome? “È una campagna inventata da Craxi contro di noi”)
E nove mesi dopo il congresso di Roma all’insegna del “nuovo comunismo”, del “nuovo PCI”, e sei mesi dopo Tian an men, quando cade il muro di Berlino, gli stessi che avevano sbeffeggiato e demonizzato i miglioristi (incominciando da Occhetto, che dopo i fatti cinesi disse che “si vuole cancellare il PCI, il socialismo, liberale, democratico e autonomo del PCI”), si produssero in una conversione al cambiamento verso una formazione politica che non aveva più a che fare con la storia e il percorso dei comunisti italiani e del socialismo italiano.
La Germania aveva già realizzato anche l’unificazione e il percorso, confuso e pasticciato, del PCI era ancora in corso. Invece di rilanciare l’unità di socialisti e comunisti, si andò a finire in Cosa1, Cosa2, Pds, DS, senza idee, valori, politica e programmi, con un insieme di terzomondismo, di pauperismo, di movimentismo radicale, di ambientalismo estremistico, e di raccolta del dissenso cattolico. Si ipotizzava una “terza via”, inesistente. Nulla del socialismo europeo. Il via libera ottenuto da Craxi per l’adesione del PDS ai socialisti europei era un semplice escamotage per coprire la mancanza di approccio riformista ai problemi del paese. Ma da qual momento, scampato, grazie a Craxi, il pericolo delle elezioni politiche anticipate nel mezzo del percorso dalla Bolognina a Rimini, si dichiararono tutti riformisti. E da allora ne hanno sparate di tutti i colori: da “la Lega costola della sinistra” fino a “Conte capo dei progressisti”.
La caduta dei partiti. Tutti questi “riformisti” erano ben felici che, all’inizio degli anni novanta, il complesso mediatico-giudiziario facesse fuori il PSI e la DC e tutti gli altri partiti, così rimaneva solo il PdS.
C’erano e c’erano stati indubbiamente degli errori e delle illegalità diffuse, che riguardavano tutti i partiti, sostenuti da un finanziamento illecito o illegale. E per questo sono sempre rimasto stupito che nessuno abbia aderito al discorso di Craxi in Parlamento che parlava di un sistema di finanziamento dei partiti illegale, che veniva da lontano e investiva tutti. Il che comportava che si affrontasse il problema politico di un sistema di finanziamenti esteri (dall’Urss come dagli Usa) o interni (iniziato dall’Eni di Mattei), che doveva essere smantellato con gli strumenti della politica distinguendo il finanziamento illecito dei partiti dalla corruzione individuale.
Ricordo a me stesso che dal 1979 al 1992 ogni anno gli italiani votavano o per i referendum, o per le politiche, o per le amministrative o per le europee e i costi aumentavano sempre più (con gaudio dei giornali, delle radio e tv private). Quattordici anni di ininterrotta campagna elettorale con tanti referendum a cui poi non si è dato seguito, nonostante il forte pronunciamento popolare. Esempio la privatizzazione della Rai, che è rimasta a spese dei contribuenti patrimonio del “generone romano”, come confermano anche le utlime nomine. Invece si è privatizzato tutto (banche, industrie, autostrade, ecc), si è abolito il Ministero delle Partecipazioni Statali, ma non il Ministero del Turismo e dello spettacolo, anzi.
Il sistema mediatico-giudiziario ( le due vere e autentiche caste) ha demonizzato i partiti che peraltro si sono arresi per codardia, per paura, per calcolo politico. Mi fermo qui, ma la mia esperienza (e lo scriverò) è quella di uno che ha combattuto politicamente tutto questo malcostume e questa degenerazione del sistema politico, respingendo anche le richieste che mi arrivavano da Botteghe Oscure, e ha combattuto anche negli anni di “Mani pulite” a viso aperto le degenerazioni giustizialiste.
L’antipolitica, anticamera della destra reazionaria. Ma la cosa principale che è stata la rovina per tutti, è di non aver compreso che la caduta del Muro di Berlino, non riguardava solo il destino del PCI e che l’ondata mediatico-giudiziaria non riguardava solo i partiti di governo, ma l’intero sistema politico ed era un attacco alla politica, con l’affermazione dell’antipolitica, elevata a sistema.
A me è sempre venuta una domanda: come mai il PDS ha poi venduto tutto il suo patrimonio (compresa Botteghe Oscure)? C’era e c’è un problema di finanziamento della politica e dei partiti o no? Oppure dobbiamo andare addietro alla demagogia, all’ipocrisia, alla menzogna e alle bugie che sono state disseminate in questi trent’anni ? Epoca in cui qualcuno ha voluto far credere che la magistratura avrebbe eliminato la corruzione, se l’avessero lasciata fare, con i suoi modi spicci e sbrigativi.
Ma questo è anche il Paese che accetta, senza spernacchiarli e senza mandarli a scopare il mare, che alcuni, dal balcone di Palazzo Chigi, proclamino l’abolizione della povertà.
Come sempre, nella storia, quando si lascia spazio al moralismo, al giustizialismo, all’antipolitica, ci si ritrova con la destra: si sono ritrovati con Berlusconi, con Fini e con Bossi. A furia di demonizzare il PSI e i socialisti, si sono ritrovati con la Meloni, La Russa. De Corato e Fidanza. Per inciso, l’attuale assessore alla sicurezza della Regione Lombardia, Riccardo De Corato, allora missino, nel 1993 si ammanettò per un paio d’ore in piazza del Duomo a Milano, con un cartello in mano “Craxi in libertà, manette all’onestà”.
E allora hanno annaspato, e hanno dovuto andare a cercare un professore – un esponente della dc, già presidente dell’Iri dal 1982 al 1989 e dal 1993 al 1994 – e poi inventare una fusione a freddo, che ha prodotto tante margherite.
Il riformismo. Il termine “riformista” appartiene alla storia del movimento operaio di impronta marxista: “è il movimento politico-ideologico, formatosi nel seno della tradizione socialista, in opposizione al rivoluzionarismo”. Ora, non basta volere le riforme (quali?) per essere “riformisti”. Se mi è consentito, la definizione di “riformista” appartiene prima di tutto a coloro che hanno militato nel partito socialista o che nel partito comunista hanno sposato le tesi riformiste e per questo sono stati bollati come “miglioristi” (un termine che per i rivoluzionari, marxisti, ingraiani, berlingueriani, movimentisti e operaisti era spregiativo). Ricordo che a proposito delle vicende Fiat, per confutare le tesi di Giorgio Amendola, Berlinguer disse in un comizio al Cinema Adriano a Roma che Amendola non sapeva l’ABC del marxismo: ed eravamo all’inizio della sconfitta del movimento sindacale e del PCI, sancita poi dalla marcia dei quarantamila.
In sintesi, il riformista pone le questioni sociali, della redistribuzione dei redditi, della occupazione, della povertà, della schiavitù, dell’ignoranza, di servizi universali, come la sanità e la scuola, dei diritti della persona, nell’ambito di una economia di mercato, nel rispetto della proprietà privata, di una democrazia parlamentare rappresentativa e di uno stato di diritto.
Certo oggi bisogna ridefinire le categorie sociali ed economiche, aggiornare l’apparato ideologico e valoriale dei riformisti, e definire meglio i limiti entro cui operano lo stato e il mercato: definire il “quanto”, nell’epoca moderna e in una dimensione europea della formula di Bad Godesberg della socialdemocrazia tedesca: “mercato quanto più è possibile e Stato quanto è necessario”.
Ma oggi una forza socialista riformista non può che porsi in una logica e una politica europea: per esempio, mi auguro che alle prossime elezioni europee ci siano le liste dei socialisti, sovranazionali, e non nazionali e che ci sia l’elezione diretta del Presidente della Commissione europea.
Confusione e nessuna analisi differenziata. Nella confusione attuale, oltre al termine riformista, si sono perse le definizioni di moderato, di conservatore, di reazionario (che si confonde con la definizione di fascista). Non c’è nulla di male a cercare di fare una forza centrista, diversa dalla sinistra riformista o massimalista e diversa dalla destra conservatrice o reazionaria: perché dipingerla come “riformista”? Non fare l’analisi differenziata della forze politiche in campo è un tragico errore. E un partito può essere certamente progressista, ma è un’altra cosa da un partito socialista riformista. Perché riformismo non è un metodo, (definizione di Letta), è una politica, una scelta di riferimento sociale, economico, culturale, ideale, di valori: da un partito riformista mi aspetto che, in primo luogo, combatta la schiavitù in cui sono costretti a vivere decine e decine di migliaia di extracomunitari, che combatta il caporalato che non esiste solo nelle campagne del sud e del nord. Mi aspetto, da un partito riformista, che agisca per lo stato di diritto, e capisca finalmente che la scelta non è tra giustizialismo e garantismo. E si potrebbe continuare.
Memoria e futuro. Scriveva Emanuele Macaluso, in “Comunisti e riformisti. Togliatti e la via italiana al socialismo, Feltrinelli (2013)”: “Tanti anni fa Gerardo Chiaromonte partecipò a un congresso dell’Spd. Al suo ritorno gli chiesi notizie sui lavori. Gerardo mi rispose che quel che più d’ogni altra cosa l’aveva colpito era l’addobbo della sala in cui si svolgeva il congresso. Tanti drappi rossi con tante foto: Marx, Engels, Rosa Luxemburg, Karl Liebknecht, Kautsky, Bernstein ed altri. Un partito che da tempo aveva fatto la grande svolta di Bad Godesberg non cancellava il suo passato e il suo a volte drammatico cammino” .A me ha colpito che il PD non abbia ricordato, come si doveva, il quarantesimo della scomparsa del comunista Giorgio Amendola, e forse mi è sfuggito che per la scomparsa del comunista sen. Bollini, il maggior conoscitore del bilancio dello Stato, o del grande sindaco comunista di Cinisello Balsamo Enea Cerquetti non ci sia stato neanche un necrologio del PD.
Per un partito socialista, democratico e liberale, autonomista ed europeista. Ecco. Io spero che da Milano, qualunque sia il risultato della candidatura di Giorgio Goggi ( ovviamente meglio se positivo), riprenda il cammino per costruire la casa comune dei socialisti e dei comunisti riformisti: un partito socialista, democratico e liberale, autonomista ed europeista che diventi, anche con una organizzazione diffusa, protagonista della vita politica italiana. Senza nostalgia del passato, ma con la memoria della nostra storia, di socialisti e comunisti, di riformisti in prima linea per la difesa della democrazia, della libertà e dei diritti dei più deboli, un partito che sappia affrontare le nuove sfide ecologiche e digitali e i complessi rapporti internazionali; un partito che combatta le disuguaglianze, che impedisca nuove ingiustizie e crei le condizioni perché tutti abbiano nuove opportunità e possibilità di benessere e riprendano nelle loro mani la costruzione del futuro. Mi piace sognare e cercare di realizzare i sogni: altrimenti la vita diventa molto triste.
“La colpa, caro Bruto, non è nelle nostre stelle, ma in noi stessi” “Buona notte, e buona fortuna”
Luigi Corbani
(venerdì 1 ottobre 2021)
Grazie Corbani per la determinazione della tua luciditá.