Con la vicenda Renzi sono venuti allo scoperto nel PD atteggiamenti e politiche deleterie.
“Colpisce ad esempio l’argomentazione di Goffredo Bettini, secondo il quale non sarebbe “uno scandalo” se le “istanze più riformiste e liberali” si accomodassero fuori dal Pd insieme a Renzi” scrive Andrea Romano. In una intervista, il segretario del PD Zingaretti parla del PD come di “luogo plurale di incontro e sintesi di pensieri diversi: quello della sinistra, quello laico-azionista, e il pensiero attualissimo del cattolicesimo democratico”: non si cita il pensiero socialista riformista e la cosa non mi sembra casuale, visto il consigliori che si è scelto.
Il pensiero della sinistra non è la stessa cosa del riformismo: anzi, il disastro è iniziato quando in tutti i modi si è voluto negare lo sbocco socialdemocratico europeista della “ditta”. La stessa vicenda del cambio del nome, osteggiata fino a qualche mese prima della caduta del Muro di Berlino, durante le vicende drammatiche di Piazza Tian an men, è stata condotta in un modo talmente confuso, che il prodotto che ne è uscito non aveva valori, ideali e pratiche che si rifacessero alle forze del riformismo europeo. Il via libera ottenuto da Craxi per l’adesione del PDS ai socialisti europei era un semplice escamotage per coprire la mancanza di approccio riformista ai problemi del paese: un misto di terzomondismo, ambientalismo e pauperismo. Leggo D’Alema, che ha sempre avuto scarso senso dell’umorismo, e non si rende conto del ridicolo: «Leggo ricostruzioni fantasiose sul mio conto, come se io non fossi stato un riformista. Potrei anche cantare Bandiera rossa, che è una bella canzone, ma insieme ad altri ho portato l’Italia nell’euro, il mio governo aveva come ministro dell’Economia Ciampi, con l’amministrazione Clinton abbiamo fatto la guerra nei Balcani e con Bush preso il comando di un’operazione di pace in Libano». Un altro con un ego smisurato, ma con il “complesso di Adamo”: ieri la Lega era costola della sinistra, oggi sono le 5S.
Del resto, anche l’amico del braccio destro di Zingaretti, il Veltroni – quello che passa per “fondatore” del Pd, quello di “I care”, di “we can”, parole d’ordine molto popolari come noto – non ha mai amato né il riformismo né i riformisti: anzi, il suo grande contributo di idee alla convention di Milano, promossa da Martina, è stato quello di definire la politica del PD “riformista”, sì, ma, “radicale”, così pensava di nobilitare un termine poco di sinistra.
Tutti questi “riformisti” erano ben felici che, all’inizio degli anni novanta, il complesso mediatico-giudiziario facesse fuori il PSI e la DC e tutti gli altri partiti, così rimaneva solo il PDS. Ma come sempre, nella storia, quando si lascia spazio al moralismo, al giustizialismo, all’antipolitica, ci si ritrova con la destra: si sono ritrovati con Berlusconi, con Fini e con Bossi. E allora hanno annaspato, e hanno dovuto andare a cercare un professore – un esponente della dc, già presidente dell’Iri dal 1982 al 1989 e dal 1993 al 1994 – e poi inventare una fusione a freddo, che ha prodotto tante margherite, l’ultimo quello cha ha appena lasciato il partito, perché era a disagio a fare per quattro anni il segretario e per tre anni il Presidente del Consiglio.
Ed oggi siamo a enunciazioni da manicomio: una coalizione, un accordo di governo diventa un’ipotesi di alleanza organica, di unità per le elezioni comunali, regionali e politiche, ancor prima di combinare con il governo qualcosa di buono.
È una grande sciocchezza dire di “mescolare gli elettorati di PD e 5S”, prefigurando una futura unità organica. Il PD ha l’obbligo, se non vuole sparire nei meandri del generone romano, di recuperare il voto delle astensioni, dei ceti medi e popolari, che nel Nord hanno votato per la Lega e nel Sud hanno votato per le 5S. Non pensare a quanto avviene al Nord è tipico di un ceto politico romano “governista” che ha consegnato Roma alle 5S e che oggi si appresta a rilanciare le 5S, lasciando anche un enorme spazio alla Lega: parlare di sicurezza sulla piazza della stazione Centrale non è retorica populista.
“La sfida al populismo si gioca dunque sul terreno della prudenza e della lungimiranza, che sono virtù politiche ardue perché richiedono attori che sappiano vedere l’utile oltre il loro naso, oltre i numeri dei sondaggi e la propaganda quotidiana, oltre lo stillicidio del presentismo mediatico. – scrive Nadia Urbinati sul Corriere – Si dice che la necessità aguzzi l’ingegno — questo governo non ha altra scelta che essere un buon governo. Diversamente sarebbe una nuova palla al piede in un Paese paralizzato e instabile, giustamente punito dagli elettori. La consapevolezza dei rischi e delle possibilità, e soprattutto della potenziale forza dell’avversario, può avere una positiva funzione di deterrenza”.
Sarebbe bene meditare su queste parole, come sarebbe bene e utile che il PD facesse un vero congresso, coinvolgendo la ”base” dei militanti e dei simpatizzanti: non basta la kermesse di due giorni sul programma. Ci vuole un confronto vero tra tutte le componenti del PD per superare, non le correnti che sono linfa vitale in un partito pluralistico, ma le tristi degenerazioni e incrostazioni correntizie che si porta addietro dall’origine, in cui la fedeltà al capocorrente è premiata più della competenza e della capacità.
Ben venga una “nuova democrazia interna” come ha detto Zingaretti, in cui la componente riformista, europeista ed autonomista, liberal democratica, abbia il suo ruolo creativo e produttivo, Bettini permettendo ovviamente.
“”La colpa, caro Bruto, non è nelle nostre stelle, ma in noi stessi.” Buona notte, e buona fortuna, “
Luigi Corbani
(giovedì 19 settembre 2019)
Caro Luigi. Sono d’accordo ma temo che il Pd sia allergico alle istanze riformiste e liberali in modo difficilmente curabile.