La capacità di influenza di una multinazionale sui mass media emerge quando gli affari segnano il passo. Quando tutto va bene, è normale che i risultati dell’impresa vincente vengano riferiti come tali o addirittura esaltati. In questo caso, non serve una grande capacità di influenza. La quale, invece, serve moltissimo quando i risultati deludono. Ma serve a chi?
Serve abbastanza poco ai mercati finanziari, perché gli investitori professionali sono perfettamente in grado di leggere i bilanci e non nutrono grande considerazione per i giornali, specialmente per quelli italiani. Il loro giudizio viene sintetizzato ogni giorno dalle quotazioni di Borsa delle azioni e delle obbligazioni.
L’influenza sui media serve invece parecchio al gruppo dirigente dell’impresa, specialmente se i suoi destini dipendono dal giudizio della politica. È questo il caso dell’Enel.
Di questi tempi, che precedono di qualche mese le nomine, l’Enel sta inondando i giornali italiani di pubblicità istituzionale per celebrare il 60esimo anniversario della sua costituzione. Ossigeno provvidenziale per editori con l’acqua alla gola. Il ritorno di tali avvisi non consiste tanto nel supporto agli affari dell’Enel in Italia, che d’altra parte sono in larga misura regolati dall’Authority, quanto nella benevolenza generalizzata delle testate grandi e piccole, di pura informazione o di tendenza. Se ne è avuta l’ennesima prova in occasione della diffusione dei risultati dei primi nove mesi dell’anno.
I punti su cui articolare resoconti adeguati sono quattro: quanto ha guadagnato l’Enel rispetto allo stesso periodo, com’è andata sul piano patrimoniale, come sta andando il titolo, che cosa l’Enel fa nel suo primo mercato che è ancora l’Italia.
I grandi giornali si sono limitati a registrare il titolo della nota ufficiale della società, estraendone alcuni dati senza dare fastidio. I giornali di tendenza hanno evitato l’argomento. Eppure…. Eppure, in altri tempi, avremmo letto, proprio a partire dalla nota ufficiale, analisi allarmanti.
Quando i debiti finanziari, al netto della liquidità e senza considerare le obbligazioni subordinate che sempre debito sono, sfiorano i 70 miliardi (erano circa 52 alla fine del 2021) non ci si può limitare a riportare la visione dell’amministratore delegato, Francesco Starace, che giustifica una tale enorme esposizione con gli investimenti nelle rinnovabili e nelle reti e ne promette la discesa a 62 miliardi entro il prossimo 31 dicembre. Si dovrebbe invece mettere in relazione il trend degli investimenti con quello dei correlati risultati economici. Tanto basterebbe a far squillare un segnale di allarme: i debiti aumentano del 34% in nove mesi, mentre l’utile netto del gruppo cala del 29,8% e si attesta a 1,7 miliardi. Nell’epoca dei tassi zero, va detto, il debito non faceva paura. Ma ai tempi dei tassi in sensibile rialzo continuare ad aumentare un debito già molto alto richiederebbe un pensiero preoccupato, che l’editoria in ginocchio non sa o non può formulare. Tanto più se per fronteggiare la congiuntura avversa l’Enel deve chiedere l’assicurazione Sace per 16 miliardi di margin call1.
In questo contesto, la promessa di Starace di ridurre di 8 miliardi il debito nel quarto trimestre suscita curiosità. La sua non è parola di Re, indiscutibile per definizione, ma la parola del Duce dell’Enel, è da considerare con rispetto ma con il beneficio del dubbio. Ancorché anche un debito di 62 miliardi (più i bond subordinati) appaia ingente e pericoloso.
Immaginare, a sanatoria di tutto, una ripresa immediata e fiammeggiante dei margini operativi è illusorio. Nei primi nove mesi dell’anno, il margine operativo ordinario è rimasto sostanzialmente stabile sui 12,7 miliardi. Le previsioni ufficiali della società lo fissano a 19-19,6 miliardi. Più o meno dov’erano prima. Ma per confermarle l’Enel dovrebbe realizzare un margine di 6-7 miliardi nel quarto trimestre quando finora ha marciato al ritmo di 4 miliardi a trimestre. Se ne potrebbe arguire che sono in arrivo vendite di attività, tali da generare incassi e deconsolidamenti di debito capaci di migliorare la posizione finanziaria netta dell’Enel e, al tempo stesso, capaci di fornire plusvalenze buone per irrobustire i margini operativi della casa madre, di per sé fiacchi.
Sia come sia, l’Enel presenta ormai da qualche tempo margini che, depurati dalle plusvalenze, restano fermi, se non cedenti. I cospicui investimenti nelle fonti rinnovabili e nelle reti, fatti all’estero, in America Latina e Usa, rendono al momento troppo poco. Renderanno di più, molto di più, nel prossimo futuro? Questo sarebbe l’annuncio adatto per gli analisti, ma Starace non mette alcuna enfasi su questo argomento. Preferisce esaltare il ruolo dell’Enel come alfiere dell’indipendenza energetica dei Paesi nei quali opera in forza delle rinnovabili. Insomma, Starace la butta in politica, ma trascura le forti dipendenze delle rinnovabili dalla Cina e, soprattutto, perde il senso delle proporzioni: gli USA o il Brasile basano la loro indipendenza energetica sulle oil company, sullo shale gas e lo shale oil, sulla foresta amazzonica e su Petrobras, non certo sugli investimenti dell’Enel e di altre aziende simili, rilevantissimi per le singole società, del tutto ininfluenti per quei grandi Paesi; e poi in Italia la spinta dell’Enel sulle rinnovabili è trascurabile, com’è ormai noto anche se la stampa sul questo punto tende a sorvolare.
In altre stagioni, i mercati finanziari e i governi scommettevano sulle fonti rinnovabili senza guardare più ai dati fondamentali dei bilanci, in preda a una sbornia futurista analoga a quella per la New economy che infiammò le Borse alla fine del secolo scorso. Allora il risveglio fu brusco e, per molti investitori, doloroso. La crisi energetica post pandemia e la guerra in Ucraina hanno riportato i mercati e i governi con i piedi per terra. Le conseguenze sono oggi meno tragiche per le società oggetto della sbornia. Nel settore energetico, che ha sempre una sua concretezza, si registrano molti meno crac rispetto al settore del tutto fluido delle vecchie dot.com. Ma le conseguenze del disastro energetico per le imprese utilizzatrici e per le famiglie sono molto più devastanti.
La posizione di Starace in politica industriale – la sua insistita ostilità pregiudiziale al gas, per esempio – appare poco prudente, perché fuori tempo e lontana dalla realtà. E non lo salva nel rapporto con i mercati. Fino a due anni, ai tempi della sbornia verdeggiante, bastava annunciare un bel campo fotovoltaico, realizzato a passo di carica in Texas o in Messico, per far salire il titolo. Agli investitori non interessavano i fondamentali e spingevano l’Enel fin sopra i 100 miliardi di valore di Borsa. Il ritorno ai fondamentali ha aperto gli occhi degli azionisti sui margini operativi reali di quegli investimenti e sui debiti fatti per realizzarli e così le quotazioni del titolo Enel sono precipitate in molte sedute di Borsa sotto la media delle altre utilities. E pure sotto le quotazioni dell’Eni, che Starace considerava old economy senza futuro.
Ora, la capacità di influenza dell’Enel sull’industria dell’informazione non fa emergere questi dati preoccupanti. C’è da chiedersi se l’azionista di riferimento, e cioè il MEF, legga soltanto i giornali che parlano dei bilanci o se, com’è augurabile e probabile, legga anche direttamente i bilanci. Nel qual caso, il MEF non potrà non chiedersi se, di questo passo, i dividendi finanziati a debito, associati a investimenti esteri ambiziosi quanto poco redditizi, siano replicabili nel tempo e se questa prassi faccia bene o male a quella che resta una delle maggiori imprese italiane.
Devil
(sabato 5 novembre 2022)
1 margin call. In pratica, derivati sottoscritti da chi opera nel settore energia per coprirsi dai rischi della volatilità del prezzo del gas.
Ricordo a tutti un film americano del 2011 , disponibile su Raiplay, “Margin Call” vche racconta la storia della crisi finanziaria che ha colpito in primis gli Stati Uniti, attraverso le vicende di otto persone che lavorano per una grande banca di investimento. (NdR)