Nell’anno del centenario della fondazione del PCI, che tanto coinvolgimento emotivo ha suscitato soprattutto in chi ha condiviso parte di quella storia politica, il centenario della nascita di Luciano Lama (a Gambettola, in Emilia Romagna, il 14 ottobre 1921) sembra offrire una particolare chiave di riflessione sullo spazio che il riformismo ha nel tempo acquisito nella nuova formazione, oltre che sulla mancata ricomposizione della storica lacerazione del partito che originariamente comprendeva tutte le componenti della sinistra.
A entrambe le cause (ma più correttamente all’unica causa), Lama, con tante altre personalità emblematiche del Novecento, ha dedicato il proprio impegno di vita. Sin dal suo approdo alla politica, dopo aver giovanissimo combattuto da partigiano. Il suo primo approccio era stato nella componente “fusionista” del PSI. Fu quasi conseguente l’adesione al PCI. Da “riformista unitario”, come una volta ebbe a definire la propria militanza senza soluzione di continuità tra il sociale e il politico.
L’unità della Cgil, che già Giuseppe Di Vittorio aveva concepito come casa comune dei lavoratori comunisti e socialisti, diventò un vincolo ancora più stringente quando Lama divenne, nel 1970, segretario generale.
Nella visione di Lama solo con l’unità sociale e politica sarebbero state conquistate e difese vere “riforme di struttura”, in grado di incidere sul tessuto sociale e di cambiarlo – si può ben dire – in senso socialista. Una volta così ha spiegato come il mondo del lavoro può esercitare il suo ruolo nelle trasformazioni della società: “Non basta cambiare il rapporto di forza in fabbrica, né basta estendere questo rapporto dalla fabbrica alla società, se non investiamo contemporaneamente le strutture statali, le regioni, gli enti locali e quindi le forze politiche […]. Il contesto politico decide anche di noi e delle nostre lotte, così come le nostre lotte influiscono sul contesto politico”.
Anche per questo Lama non temeva che avesse soggettività politica la costituenda Federazione unitaria con la CISL di Pierre Carniti e la UIL di Giorgio Benvenuto. Semmai, gli premeva l’autonomia contrattuale con cui quel soggetto politico avrebbe assunto il precetto costituzionale del lavoro come valore fondante della Repubblica per promuovere nuove conquiste di democrazia, di pace e di libertà. Questo vincolo di coerenza ha finito per segnare il tratto umano e il rigore morale con cui Lama ha attraversato esperienze traumatiche come quelle degli anni di piombo. Gli stessi scontri sui licenziamenti alla Fiat o sulla scala mobile, che non poche incomprensioni suscitarono, anche dalla propria parte, parlano nel bene e nel male di un riformismo capace di assumere le necessarie responsabilità, ad un tempo politiche, sociali ed etiche, nei confronti dell’interesse generale.
E di «un riformismo con proposte per cambiare e non per lasciare le cose come stanno” resta la “grande incompiuta” della strategia dell’Eur che assumeva la priorità dell’occupazione in un paese «con più innovazione, più concorrenza, e più solidarietà».
Quell’idea, riformista e riformatrice, guardava al futuro. All’oggi, verrebbe da dire, visto che, per quanto indebolito da sconfitte, divisioni interne e ostracismi esterni, questo ruolo del sindacato è riuscito a resistere, tanto da diventare bersaglio della violenza delle frange eversive dei no vax proprio mentre il premier Mario Draghi cerca nella coesione sociale l’equilibrio post pandemico.
Se la coesione sociale costituisce la prova per saldare politica e democrazia, governo e istituzioni, mercato e bisogni, allora un programma riformista (giacché anche di quest’altra incompiuta Lama ebbe ad occuparsi nel passaggio dal vertice della CGIL alla Direzione del PCI) potrà tornare a offrire una identità indivisibile dal patrimonio della sinistra intera. O, come avrebbe detto Lama, unitaria.
Pasquale Cascella
(Strisciarossa – mercoledì 13 ottobre 2021)