Sarebbe augurabile, ancorché non troppo probabile, che nella campagna elettorale si confrontassero le diverse culture di governo in campo.
Un piccolo banco di prova è l’imposta del 25% sugli extraprofitti delle aziende energetiche. Doveva generare un gettito di 10,5 miliardi, ma ne mancano più di 9 all’appello.
Che sia un flop non vi è alcun dubbio. Ma perché un provvedimento tanto caratterizzato sul piano politico ha tanto deluso? L’esponente verde, Angelo Bonelli, attribuisce il flop alla diserzione fiscale delle aziende. Tutte le aziende? Tante? Alcune?
Bonelli se la prende con una soltanto: l’Eni. E tuttavia se perfino il “Fatto Quotidiano” ammette che le imprese hanno pagato il dovuto in base alla norma e aggiunge che il cane a sei zampe ha versato 560 milioni, quasi la metà del gettito effettivamente realizzato, a fronte dei 70 milioni versati dall’Enel, allora qualche manchevolezza nell’azione di governo andrà pure ascritta al governo medesimo e ai partiti della maggioranza, mentre una certa culpa in vigilando andrebbe imputata agli organi di informazione, dove i chierici mercatisti con il ditino sempre alzato questa volta hanno dormito. Si tratta di manchevolezze e superficialità che meritano di essere discusse affinché non si ripetano in futuro.
I casi, infatti, sono due: o le aziende hanno davvero evaso oppure era la norma a non funzionare. Nel primo caso, dovranno intervenire l’Agenzia delle Entrate e la Guardia di Finanza. E amen. Può anche essere che qualcosa si trovi o forse no. Ma sul piano politico tutto si ridurrebbe all’ennesimo “guardie e ladri”, con mezza Italia che parteggia per le guardie e l’altra metà per gli evasori. La solita storia.
Nell’altro caso, invece, si aprirebbe un problema politico non banale sia per gli estensori materiali della norma sia per quanti – partiti, giornali e tv, con l’eccezione, a un certo punto, della stampa economica – si sono concentrati sull’aliquota senza verificare né la reale consistenza della base imponibile né l’efficacia delle modalità del prelievo. Per memoria: in origine, il governo aveva indicato un’aliquota del 10% su una massa di extraprofitti di 40 miliardi e poi l’aveva elevata al 25% per venire incontro alle stentoree richieste di chi, come Carlo Calenda, reclamava il 50% e pure di chi, come Bonelli e il suo sodale Fratoianni, avrebbe voluto addirittura il 100%.
Come i lettori del “Migliorista” ricorderanno, il buon Devil aveva subito sollevato fieri dubbi sulla reale consistenza della base imponibile e sulla struttura della norma.
Non ci voleva molto. Se per extraprofitto si intende la quota di utile netto che il legislatore giudica sia in eccesso rispetto all’utile netto ritenuto accettabile, non si può individuare questo surplus, come invece fa la norma, attraverso le variazioni del consolidato IVA, perché questo consolidato non tiene conto di molteplici costi.
D’altra parte, bastava sommare i profitti complessivi delle maggiori aziende energetiche italiane nel periodo d’imposta prescelto (ultimo trimestre 2021-primo trimestre 2022) per scoprire che la somma era assai inferiore ai 40 miliardi di soli extraprofitti indicati dal governo come base imponibile.
Questo banale esercizio non è stato eseguito da nessuno. Perché tanta disattenzione? Mistero. Ma perché il governo ha preso un simile abbaglio? Per aiutare i retroscenisti a uscire dal letargo, ricorderemo che a questo genere di provvedimenti di solito collaborano la Direzione generale delle Finanze del Ministero dell’Economia e delle Finanze, l’Agenzia delle Entrate e il Sottosegretariato alla presidenza del Consiglio dei ministri. E poi decide il Consiglio dei ministri. Chi ha fatto che cosa in questa partita?
Nell’attesa di leggere sapide ricostruzioni giornalistiche, vale la pena di ragionare sull’ispirazione politica di questo provvedimento, che è radical-rivoluzionaria ma anche tremontiana (si ricordi la Robin Hood Tax). Logica avrebbe voluto che, se proprio aveva un temporaneo bisogno di incassare qualche miliardo in più di imposte dirette, il governo aumentasse di qualcosa l’Ires e/o l’Irpef. Sarebbe stata una misura equa, perché erga omnes, e avrebbe dato un gettito adeguato e sicuro. Ma così il governo avrebbe dovuto affrontare lo stigma che colpisce chi aumenta le imposte. E l’eterogenea maggioranza che lo sosteneva si sarebbe rotta.
Di qui, l’idea di individuare i cattivi del momento e di riservare solo a loro la mannaia fiscale. In tal modo, la nuova imposta sarebbe stata percepita non per quello che è, e cioè un temporaneo aumento del prelievo fiscale, ma per quello che sembra, e cioè la restituzione di un maltolto da parte dei cattivi. Nell’occasione i cattivi sono stati individuati nelle aziende energetiche. E anzi, a sentire i Bonelli e i Fratoianni, ala sinistra dell’alleanza elettorale del Pd, i cattivi si riducono essenzialmente a uno solo: l’Eni.
Torneremo sulla demonizzazione dell’Eni in un prossimo intervento. In questa sede, per quanto sia triste dirlo a carico del governo comunque meritorio di Mario Draghi, è proprio il concetto di extraprofitto a far acqua da tutte le parti. Le principali criticità sono due.
In primo luogo, il governo sembra dimenticare che le annate felici compensano quelle sfortunate. Nel caso dell’oil & gas, i prezzi internazionali salgono e scendono nel tempo, condizionando al rialzo e al ribasso i bilanci delle imprese del settore. Non ha senso criminalizzare gli anni buoni e far finta di niente negli anni negativi. Ma proprio questo fa il governo quando fonda l’imposta sulla fotografia di un istante – il periodo d’imposta a cavallo tra il 2021 e il 2022 – e non si cura dell’’intera sequenza che comprende gli anni magri precedenti.
La seconda criticità riguarda il nesso tra l’andamento dei prezzi internazionali e la qualità della gestione. Se la gestione è buona o addirittura ottima, e dunque esalta gli effetti dei rialzi dei prezzi internazionali sui bilanci aziendali ovvero ne contiene i ribassi, l’imposta sugli extraprofitti finisce con il penalizzare le gestioni migliori. Chi meno guadagna perché, magari, fa profitti giudicabili extra ma poi perde in investimenti sbagliati, e dunque compensa, non paga pegno. In un’economia di mercato è un controsenso. Ma proprio in questo controsenso cade l’imposta quando attribuisce i risultati del periodo alla mera dinamica rialzista dei prezzi internazionali di certe materie prime. Tale dinamica, in quanto fattore esterno ai meriti aziendali, delegittimerebbe i risultati reali e tanto basta per trasformare la virtuosa crescita del profitto in un immorale extraprofitto, come tale meritevole di essere tassato oltre le aliquote ordinarie Ires e IRAP.
Coerenza vorrebbe che questo schema logico possa (e debba?) essere applicato a tutte le imprese i cui risultati siano influenzati da fattori esterni e non controllabili dalle imprese medesime. Senza andare molto lontano, che cosa si dovrebbe dire dei profitti di banche e assicurazioni? Il governo e i partiti (ma anche i giornali) dovrebbero ben sapere quanto i bilanci di banche e assicurazioni dipendano dall’andamento generale delle Borse e dalle decisioni delle banche centrali sui tassi e non solo. Poiché le Borse, la BCE, la Federal Reserve e compagnia bella sono fuori dal dominio delle singole banche e delle singole assicurazioni, gli incrementi degli utili di banche e assicurazioni dovrebbero essere anch’essi considerati extraprofitti. Ma questo non accade. Una dimenticanza? Il settore finanziario è stato sdoganato dal pregiudizio negativo che pure l’aveva segnato dal crac Parmalat ai giorni nostri?
Se si può ormai lasciare tutto in sospeso davanti al cireneo Draghi, banchiere centrale chiamato nell’emergenza a palazzo Chigi per guidare un’Armata Brancaleone e ora felicemente dimissionario, queste stesse domande esigono una risposta da parte dei singoli partiti, specialmente in campagna elettorale. A cominciare dalle formazioni del centro-sinistra più estreme (i Bonelli e i Fratoianni) per passare al moderato Pd lettiano fino al Terzo polo calendian-renziano e, last but not least, alla Triade della destra che si sente vincente e perciò tace.
Devil
(venerdì 12 agosto 2022)