L’altra sera sono stato fulminato dalla geniale intuizione politica di Enrico Letta: a Otto e mezzo, Letta ha detto che la sentenza di Palermo farà molto discutere. Ed ha aggiunto che bisogna leggere le motivazioni e lui non si presta a polemiche. Un genio ! Non credevo a quello che sentivo: mi sembrava un venusiano sbarcato ieri in Italia. .
Forse per la lontananza e per il suo impegno concentrato negli studi a Sciences Po che lo hanno distratto dalle vicende del Paese, Letta non è stato informato per esempio che una sentenza sulla fantasiosa ”trattativa stato mafia” era già stata emessa e riguardava il presunto “capo” della “trattativa” Per inciso, la trattativa non è un reato: anche durante il sequestro Moro qualcuno fece una trattativa con le BR, ma nessuno dei trattativisti andò a processo. Per questo, volgarmente venne dette “trattativa”, ma i pm di Palermo fecero riferimento (senza prove) al reato di “ violenza o minaccia a corpo politico dello Stato” .
Calogero Mannino nel dicembre 2020 era stato assolto in via definitiva nel processo stralcio sulla “trattativa stato-mafia”. La Cassazione aveva dichiarato inammissibile il ricorso dei pm di Palermo contro il proscioglimento emesso dalla Corte di Appello di Palermo nel luglio 2019. Per questa trattativa era stato indagato dal pm Antonio Ingroia nel 2012: Mannino chiese il rito abbreviato e nel 2015 venne assolto dal gup di Palermo, assoluzione confermata in appello nel 2019 Ma fin dal 1992 Mannino era stato indagato (arresto, nove mesi di carcere, tredici mesi di arresti domiciliari) per “concorso esterno in associazione mafiosa”, con vari processi nel 2001 (assoluzione), poi appello nel 2003 (condanna a 5 anni), poi annullamento della Cassazione perché nella sentenza “non c’è nulla”; poi nel 2008 nel processo di appello, assoluzione perché il fatto non sussiste, sentenza confermata dalla Cassazione nel 2010.
Insomma trent’anni di persecuzione giudiziaria. E Letta non ha nulla da dire, per una vicenda in cui hanno voluto coinvolgere anche il capo dello Stato, Giorgio Napolitano. (2014).
Nella sentenza assolutoria di Mannino ci sono tutti i principi e le motivazioni per cui non sorprende nessuno (tranne Letta) che il 23 settembre 2021, la Corte di Assise di Appello di Palermo, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, abbia assolto Marcello Dell’Utri (con la formula “per non aver commesso il fatto“), Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno (con la formula “perché il fatto non costituisce reato“).
Già nel 2018 Nicola Mancino era stato assolto dalla accusa di falsa testimonianza sulla “trattativa Stato-Mafia”.
Aggiungo una considerazione sui carabinieri e sul Ros: ci mancherebbe altro che i servizi di sicurezza della Repubblica italiana non abbiano contati con settori malavitosi o eversivi. In Irak come in Sicilia, in Afghanistan come in Calabria, ci devono essere persone dei servizi, dei carabinieri, della polizia, delle forze armate che hanno contatti con i delinquenti e i terroristi per capire i loro punti deboli e dove colpire. O in qualche caso trattare per liberare degli ostaggi, come per Silvia Romani in Kenya o come nel caso Sgrena-Calipari in Irak, anche a costo della propria vita.
Ma una certa stampa, e un certo ambiente politico ha voluto imbastire una montatura, fantasiosa, per colpire (loro sì) le istituzioni democratiche, le forze politiche, e i carabinieri e i servizi segreti.
E il discredito ricade su una certa parte della magistratura che siede anche nel Consiglio Superiore della Magistratura e sul giornalismo italiano che non ha resistito a montare la panna acida di una bufala. E non sto parlando solo di un direttore di giornale, condannato almeno una decina di volte per diffamazione, e ospite continuo della Rai e de La7. Mi domando anche, perché uno che ha fatto della denigrazione o alle volte della diffamazione la sua arma giornalistica preferita può ancora dirigere un giornale e avere audience televisiva. Ma se un “politico” avesse accumulato decine di condanne per truffa ai danni dei suoi lettori/elettori, avrebbe ancora la possibilità di candidarsi ?
Aggiungo che, dopo queste dichiarazioni di Letta, sono ancora più convinto della scelta di aver firmato, in Comune, i referendum sulla giustizia (e anche quello sulla eutanasia). Aggiungo anche degli articoli scritti da giornalisti di vario orientamento politico. E non dico altro perché sparare sulla Croce Rossa non è corretto.
Il silenzio di Letta sulla sentenza di Palermo
(Francesco Cundari – Linkiesta – 25 settembre 2021)
Domanda: «La sorprende questo verdetto, fa chiarezza su quello che è successo, oppure la magistratura ha ecceduto nella ricerca di responsabilità politica nelle strategie della mafia?».
Risposta: «È evidente che una parte di sorpresa c’è, perché si tratta di un rovesciamento completo rispetto a precedenti gradi di giudizio, ma io sono sempre stato molto attento al fatto che le sentenze si prende atto [sic] e giudizi politici, polemiche politiche non mi appartengono su questi temi. Credo che, soprattutto su temi così complessi, per poter dire qualcosa bisognerà probabilmente prima leggere le motivazioni, cercare di capire quali sono i ragionamenti fatti. È evidente che è una sentenza che farà molto discutere, non ho nessun dubbio su questo».
La domanda era di Lilli Gruber, la risposta di Enrico Letta (qui testualmente e integralmente riportata). Lo scambio si è svolto durante la puntata di “Otto e mezzo” andata in onda giovedì sera.
Tutto chiaro? Riassumendo, Letta non ha nessun dubbio sul fatto che la sentenza sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia farà discutere. Gli altri, evidentemente. Perché questo è tutto quello che il segretario del Partito democratico dice in merito. Un’inchiesta su cui sono state scritte decine di libri, su cui sono state imbastite migliaia di ore di trasmissioni televisive, con cui sono state riempite intere annate di tutti i maggiori quotidiani, ovviamente da parte dei magistrati dell’accusa e dei loro numerosi sostenitori nella stampa, da prima ancora che fosse nemmeno cominciato il processo di primo grado. Per anni. E proprio adesso che arriva la sentenza d’appello, e ci dice che quella campagna martellante era infondata, adesso ci sentiamo dire che non è il momento di trarre conclusioni affrettate. Adesso bisogna sospendere il giudizio. Adesso bisogna leggere bene le motivazioni. Perché su queste cose, come dice Letta, non bisogna fare polemiche. Adesso.
Così afferma il segretario del Partito democratico, che si dice molto sorpreso dal fatto che l’appello abbia rovesciato la sentenza di primo grado su una “trattativa” così sintetizzata, già parecchi anni fa, dal mai abbastanza rimpianto Massimo Bordin: «Allora Riina, guarda, noi adesso ti mettiamo in galera, al 41 bis. Ci stai 25 anni. Poi, quando proprio stai per tirare le cuoia, allora, forse, ti facciamo uscire». E Riina: «Ottimo, accetto subito questa trattativa. Dove si firma?».
No, non è una cosa seria. Dopo avere alimentato la peggiore cultura mafiosa parlando di “Trattativa Stato-mafia” – espressione insensata ed eversiva – oggi la stampa traduce l’assoluzione «perché il fatto non costituisce reato» di tutti gli ufficiali coinvolti (oltre che di Marcello Dell’Utri, per la parte di sua competenza) con la formula: la trattativa c’è stata, ma non è reato. Veicolando il messaggio che le cose siano andate esattamente come sostenevano gli accusatori, ma per qualche misterioso motivo – un cavillo giuridico, o magari l’effetto di un’altra oscura macchinazione – tutti gli ufficiali che quella trattativa avrebbero condotto, guarda un po’, sono stati assolti.
Così, ancora una volta, si riproduce l’infernale meccanismo dell’accusa che si autoconferma: del resto, se era lo Stato a trattare con la mafia, come si poteva pensare che fosse lo Stato a condannarsi? Ed ecco dunque che la campagna può ripartire più forte di prima, fondata com’è su un sillogismo a prova di bomba, che è del resto la dinamica fondamentale di tutti i complottismi.
L’accusa vince sempre: quando il tribunale condanna, com’è accaduto in primo grado, perché ha condannato, confermando dunque la tesi accusatoria; e quando assolve, perché proprio l’assoluzione diventa la prova di un complotto ulteriore, che conferma l’esistenza del complotto precedente.
È sempre la stessa storia. In Italia si può parlare di un’inchiesta – anzi, se ne deve parlare – solo fino a quando si tratta di accuse non dimostrate. E si può andare avanti indisturbati per decenni. Quando però si dimostra che quelle accuse erano infondate, ecco che di colpo scopriamo quanto sia importante approfondire prima di parlare, leggere bene le carte, verificare attentamente le motivazioni.
Per condannare ci basta un indizio. Per assolvere non è sufficiente una sentenza.
Ecco cosa avrebbe potuto dire Enrico Letta, per esempio.
Il veleno resta
(Davide Giacalone – “La Ragione” – 24 settembre 2021)
La sentenza cancella un’accusa, ma ingigantisce un problema collettivo: la vita della Repubblica non è stata inquinata dalla trattativa fra Stato e mafia – che non ci fu – ma dall’inchiesta sull’inesistente trattativa fra lo Stato e la mafia. Una storia, falsa, raccontata talmente tante volte da essersi piantata nella memoria collettiva. Una storia, ed è questo l’aspetto ancora più inquietante, che nella sua prepotenza infondata ha coperto d’oblio quel che ancora deve essere chiarito, quel che alla mafia fu regalato, quel che ancora deve essere raccontato.
La sentenza d’appello non è definiva, vedremo se la Procura vorrà appellarla, chiedendo il vaglio della Corte di cassazione. Ma già prima di quest’ultimo passaggio era divenuta definitiva l’assoluzione di Calogero Mannino, per i medesimi fatti. L’ex ministro aveva chiesto il rito abbreviato, aveva attraversato un lunghissimo calvario giudiziario e, alla fine, era stato definitivamente assolto. La sentenza di ieri conferma quella lettura dei fatti. Le persone coinvolte sono diverse e ciascuno di loro merita una personale ricostruzione e reintegrazione dell’onorabilità. Ma questa faccenda non è stata solo la loro devastazione, perché ha demolito parte stessa della nostra storia e della nostra onorabilità collettiva. Per questo scelgo di concentrarmi su uno solo degli imputati, che con la sua personale storia testimonia un problema che non si chiude affatto e anzi si apre: Mario Mori. Carabiniere, a capo del Ros (Raggruppamento operativo speciale). Accusato d’essersi messo al servizio dei mafiosi. Ha passato lunghissimi anni sul banco degli imputati e non ha ancora finito, perché, appunto, la sentenza potrebbe essere appellata. È la sua posizione a porre il problema, perché Mori e il Ros lavorarono con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Due magistrati che furono ferocemente avversati dalla corporazione togata, dalle correnti politicizzate della magistratura e da gran parte della politica che poi volle assegnarsi l’esclusiva dell’anti mafiosità. Gli stessi che poi ipocritamente li celebrarono. Furono isolati, ridotti all’impotenza, infine ammazzati. Oltre tutto questo, erano anche dei fessi, degli incapaci o peggio, visto che si fidavano di Mori? Falcone importò, con il Ros, l’inchiesta “mafia appalti”. Fecero di tutto per fermarlo, fino a costringerlo ad abbandonare il lavoro a Palermo e trasferirsi a Roma. Ma era tenace, Falcone, e non mollava. Finché saltò in aria. Borsellino capì il segnale e chiese di occuparsi lui di quell’inchiesta. Gli fu impedito dall’allora capo della Procura di Palermo. Quel veto venne rimosso poche ore prima che anche lui saltasse in aria. E – questo è il punto atroce, questo il fatto da chiarire – non si erano ancora posate le polveri di Via D’Amelio che la Procura di Palermo smembrò e seppellì l’inchiesta “mafia appalti”. Ma c’erano ancora i carabinieri, c’era il braccio destro di Borsellino, anche lui carabiniere, Carmelo Canale, cognato di un altro carabiniere, Antonino Lombardo, diffamato in diretta televisiva alla vigilia di un importante viaggio investigativo negli Stati Uniti. Lombardo si suicidò. Gli altri finirono tutti imputati per mafia. Tutti. E tutti assolti. Questa non è la storia di un errore giudiziario, ma di un disegno. Un disegno che servì a cancellare un’inchiesta impostata da Falcone. Non ho mai pensato, in tutti questi anni, scrivendolo e dicendolo, che ci sia stata una trattativa, ma se ci fu la fecero altri, non gli imputati ora assolti. E in quella la sepoltura dell’inchiesta ebbe un ruolo, così come la scarcerazione di boss mafiosi, alla fine varata da un confuso e stordito ministro della Giustizia (Conso), che seguì le indicazioni del capo dei cappellani penitenziari (Curioni), con legami che arrivarono al Quirinale. La sentenza di ieri non chiude un processo, ma apre una questione ineludibile. Prima che il falso si sedimenti nel mendace racconto della nostra storia.
Kriminal
(Mattia Feltri – La Stampa – 25 settembre 2021)
Noto con sollievo l’improvviso diffondersi di una teoria che negli ultimi anni non ha goduto di ampia stima: la verità processuale non coincide con la verità storica, nemmeno se le procure hanno spesso dato l’impressione di mettere alla sbarra, anziché singoli imputati, interi partiti e repubbliche e epoche, progetto piuttosto esorbitante e vagamente eversivo. E però, come nel caso della Trattativa, se le sentenze arrivano a decenni dai fatti e dall’apertura delle indagini, la giustizia di per sé non è giustizia, ma qualcosa che assomiglia a un bignami. In questi giorni noi stiamo dibattendo di eventi che risalgono a trent’anni fa e ne dibattiamo perché una sentenza è arrivata ora, trent’anni dopo (e manca ancora la Cassazione).
Nell’attesa abbiamo trasformato in verità storica nemmeno la verità processuale ma un’ipotesi, quella dell’accusa. Così per trent’anni abbiamo raccontato la storia del nostro paese come una storia criminale, e le nostre istituzioni come istituzioni criminali: un terrapiattismo politico su cui populisti, demagoghi e arlecchini vari hanno edificato le casematte da dove hanno lanciato rivoluzioni dell’onestà e psicotici governi del cambiamento. Invece l’Italia è un paese che, come tutti gli altri, ha in sé l’opaco e pure l’inconfessabile per la ovvia ragione che la casa di cristallo è una favoletta inadatta a reggere alla prova di uno streaming. La verità processuale non è la verità storica, e infatti non dovrebbe esserci bisogno di una sentenza per sapere che l’Italia è un legno storto, non un legno marcio. Se è andata in questo modo è perché il grillismo arrivò molto prima di Grillo.
“La colpa, caro Bruto, non è nelle nostre stelle, ma in noi stessi” “Buona notte e buona fortuna”
Luigi Corbani
(domenica 26 settembre 2021)
La nostra storia, dunque, non potrà essere raccontata ai nostri nipoti con la sicurezza di fatti oggettivamente provati e in breve tempo. Ci sarà sempre il sospetto che, al passo successivo, tutto possa cambiare. Trenta, venti, dieci anni sono troppi per provare la sentenza ma i cavilli, i malvagi legami tra istituzioni e parti avverse non permetteranno che la Verità emerga come alla fine di una fiaba.