Avrete notato che in questi giorni si è affacciata, timidamente e in modo criptico, la questione della Borsa italiana in relazione alla Brexit. In verità è un argomento tabù, perché ha dietro una storia certamente poco commendevole, si fa per dire, accuratamente occultata da chi, con l’intreccio fra i poteri finanziari e dei media da loro stessi posseduti, ha di che nascondersi. Con la colpevole omissione collusiva della politica.
La storia sarebbe lunga, e non a caso occultata. Ma proviamo a riassumerla brevemente, nei suoi elementi più rilevanti e attuali.
Nata nel 1808 la Borsa italiana, una delle più antiche d’Europa, ha vissuto fino al 1998, in un regime pubblicistico anomalo, con regole e vincoli che, caso unico al mondo, aveva creato un intreccio confuso fra controllori e controllati. Da una parte la Consob, la Banca d’Italia e gli organi di governo. Dall’altra la Borsa, appunto, che doveva agire con le regole di un libero mercato, ma non era così.
Finalmente nel 1998 si procede alla privatizzazione, prevista dalla legge n.1 del 1991, dopo alcuni anni di intenso lavoro per la sua riforma, che ha realizzato un processo di modernizzazione all’avanguardia, come lo attestano i risultati complessivi di quegli anni, e i riconoscimenti internazionali.
In una economia, nella quale la finanza e il capitalismo finanziario, hanno assunto un ruolo assolutamente predominante sulla stessa economia reale, una Borsa efficiente costituiva una istituzione fondamentale, come motore dell’economia nazionale, innanzitutto a garanzia della sovranità del paese sui più generali processi economici: tanto sul versante del listing, con la quotazione di imprese nazionali e internazionali, bisognose di capitali per lo sviluppo, quanto sul versante dell’investment, per offrire occasioni di investimento ai capitali del mercato globale.
Ebbene nel 1998 arriva quella che è stata definita “la privatizzazione meno nota”, nel senso che è quella della quale si è parlato pochissimo, sia prima che dopo. E pour cause…
E chi compra la Borsa italiana? Un cartello di banche, tutte italiane, alla faccia della globalizzazione galoppante già allora.
Ma l’obiettivo dichiarato, era quello di rilanciare il mercato finanziario e il sistema economico italiano in dimensione globale, al servizio però, e innanzitutto, delle imprese italiane grandi e medie, almeno. Insomma l’”Italy first” ante litteram, ma non solo.
Le banche, quindi, si erano assunte questo compito che, come classe dirigente del Paese, pur dovendo fare certamente i loro interessi, avevano il compito e il dovere di perseguire l’obiettivo dell’interesse nazionale, e, finalmente, quindi, con un’idea corretta della sovranità. Non come la retorica sull’italianità, al tempo dei “capitani coraggiosi” di Alitalia. Un interesse vero, questo sulla Borsa, che era insieme politico, economico e sociale, in una interpretazione, moderna e aggiornata, del ruolo di una importante istituzione al servizio dello sviluppo del Paese.
Trascurando le modalità con cui l’operazione venne compiuta, con non pochi buchi neri, a cominciare dal conflitto di interessi, e nell’assenza più totale del Governo Prodi, quasi a ribadire che il pur bravo professore, con le privatizzazioni non ne ha azzeccata una, limitiamoci a vedere il seguito.
I presupposti e gli intenti politici erano quelli che si è detto. Cosa è accaduto invece? Che i nostri campioni bancari nazionali, confermando la loro vocazione predatoria e speculativa, di cui da sempre, e ancor più in questi anni, hanno dato prove inconfutabili, quasi fin da subito, come si sono impadroniti della Borsa a prezzo di saldo, hanno iniziato una politica speculativa su servizi e tariffe che, col solo intento di far cassa, non facilitava certamente la quotazione delle imprese, ma soprattutto hanno cominciato a cercare un compratore a cui rivendere questo gioiello. Tale infatti era diventato, come dimostrava il trend di sviluppo che negli anni precedenti si era registrato, e le straordinarie innovazioni introdotte sul piano normativo, tecnologico, e della promozione culturale e professionale (basti pensare alla comunicazione, alla trasparenza e alla formazione) e del marketing nazionale e internazionale.
Prima una lunga infruttuosa trattativa con la borsa tedesca, la Deutsche Börse Group, per finire poi, nel 2007, ad approdare, e vendersi totalmente, a quella inglese, la London Stock Exchange Group, alla quale hanno ceduto il 100% della proprietà, finendo così per liquidare ogni residua autonomia del nostro mercato finanziario. Parlare di “Borsa di Milano” oggi, non è un eufemismo, è cosa assolutamente ridicola.
Non sono mancati, come si sa, casi di fusioni per elevare il tasso di competitività nel mercato globale. Non è questo che discutiamo. Ma un pò di attenzione a difesa degli interessi nazionali, era il minimo che si dovesse pretendere, se non altro a compensare un regalo così sontuoso. Soprattutto da parte delle “vigili” (sic!) autorità governative. E per dire quanto la Borsa italiana riformata, fosse appetibile, è confermato anche dalla ghiotta offerta della Borsa di Hong Kong, anch’essa molto interessata all’acquisto.
In compenso i nostri campioni bancari italiani, hanno fatto un affare con un moltiplicatore pari a 70 volte il prezzo di acquisto!
Certo, ci si sono ripagate le enormi perdite dei disastri di quegli anni: dai bond argentini, ai default di Cirio, Parmalat ed altro, che gli avevano procurato buchi enormi nei loro bilanci, e nella loro già precaria reputazione.
È chiaro che a quel punto già Milano e l’Italia, in materia di sovranità finanziaria non contavano più nulla. Si dice che la sede di Milano, non avesse neppure l’autonomia di comprare il materiale di cancelleria.
E oggi con la Brexit? È chiaro che si contava nulla prima, e che ora conteremo ancora meno, se possibile. Possiamo però stare tranquilli, perché l’ineffabile Conte premier, giusto definirlo col termine inglese, ci dice, nella conferenza stampa di fine anno, che non ne può parlare, ma quando mai ? Perché “si sta riservatamente seguendo il problema”!
Ma davvero ci meritiamo di essere presi in giro così spudoratamente? E continuamente? Evidentemente sì. Però, in compenso, con stile british, come si conviene. Riservatamente….
Benito Boschetto
(mercoledì 9 gennaio 2020)