È assolutamente certo che della cultura e dello spettacolo dal vivo alle forze politiche e al governo non interessi nulla. Il “documento Colao” non ne ha parlato. Il premier Conte ha parlato degli artisti “che ci divertono”. I dipendenti (pubblici) degli Enti lirici e delle orchestre pubbliche sono stati tutelati, mentre i lavoratori autonomi dello spettacolo hanno avuto un bonus poco superiore a quello per comprare le biciclette e i monopattini. Il Ministro Franceschini ha parlato di creare una “Netfix dello spettacolo e della cultura”, dimenticando che una delle più grandi aziende pubbliche del Paese esiste per quello: la Rai, 2,8 miliardi di ricavi (che non bastano, sembra), 13.000 dipendenti, 1.800 giornalisti, otto testate giornalistiche, tredici canali tv e dodici reti radiofoniche. C’è anche RaiPlay (tanto pubblicizzata con Fiorello) e ci dovrebbero essere dei canali infornatici per le news, lo sport, i bambini, la cultura, il “learning” e avanti. Ma adesso si aggiunge un canale in inglese e un canale “istituzionale”. E di fronte a questo mastodonte, il Ministro della Cultura parla di creare un “Netfix italiano”. È vero che per la politica, la Rai è vista solo in funzione delle dichiarazioni davanti ai “reggimicrofoni” dei vari telegiornali, nazionali e locali: la politica si occupa della Rai solo per la spartizione delle direzioni dei telegiornali o delle reti principali.
Basta vedere che i vertici della Rai non sono stati chiamati, se non erro, neanche agli “Stati Generali”: contano di più Alessandro Baricco o Monica Guerritore per la cultura del Paese che i vertici Rai, i quali peraltro non hanno fatto una piega. Non tanto perché, a dire la verità, sono abbastanza screditati (absit reverentia vero), ma perché nessuno del Palazzo, del Governo o del Parlamento associa la Rai alla cultura.
Tanto che i dirigenti del settore Cultura della Rai sono praticamente esenti da qualsiasi lottizzazione, sono fenomeni residuali delle trattative. O si candidano loro ad avere posti di maggior “peso” (reti o telegiornali) o nessuno li considera e nessuno va a vedere i risultati della loro attività. Anzi, c’è un gioco delle parti: le reti generaliste si coprono e non devono impegnarsi sul fronte culturale poiché hanno l’alibi della presenza delle “reti culturali”.
Dal giugno 2014 (un’era geologica fa, in Rai) è “direttore di Rai Cultura, direzione che comprende Rai Scuola, Rai Storia, Rai 5, l’orchestra sinfonica nazionale e le produzioni di prosa e musica colta per le reti generaliste” Silvia Calandrelli, (57 anni, romana, stipendio lordo 2019 pari a euro 233.254), che era entrata in Rai nel 1989 con il programma radiofonico “Radiodue 3131”, storica trasmissione radiofonica condotta dal 1981 da Corrado Guerzoni, stretto collaboratore di Aldo Moro prima come capoufficio stampa, poi come portavoce e assistente alla comunicazione. Si deve notare che tutti quelli che passarono da quella trasmissione hanno avuto una brillante carriera in Rai.
Comunque, nel gennaio 2020, in seguito alla costituzione delle Direzioni di Genere (sic!), Silvia Calandrelli viene nominata Direttore della Direzione Cultura ed Educational e, con pari decorrenza fino a maggio 2020, le viene affidata la responsabilità ad interim della Direzione Rai Tre, che adesso, sempre ad interim è passata a Francesco Di Mare, (65 anni napoletano, stipendio inferiore a € 200.000) che naturalmente ha anche un altro lavoro: “Nel gennaio 2020 viene nominato Direttore della Direzione Intrattenimento Day Time e, nel maggio 2020, gli viene affidata la responsabilità ad interim della Direzione Rai Tre.”
Quindi, Calandrelli è stata per quattro mesi a capo di Rai Tre e oggi rimane solo (si fa per dire) “Direttrice Rai Cultura, Direttrice Genere Cultura ed Educational”. Sì perché in Rai non bastano mai le direzioni: adesso ci sono nove direzioni “di genere”. Perché c’è “direzione del canale Rai Cultura” e c’è la “direzione del Genere Cultura ed Educational”. Intanto però è anche nel consiglio di amministrazione di Rai Com, dov’era presidente fino a maggio la Monica “di Monza” Maggioni.
In un’altra puntata vedremo la storia dell’orchestra Rai di Torino, per il momento basta osservare che il canale Rai Storia è di fatto appaltato a Paolo Mieli (è possibile sapere il compenso? o è un segreto di stato?).
A “Rai Storia” sono passati fior fiore di direttori, in attesa o dopo un incarico più prestigioso: Paolo Liguori, Giovanni Minoli, Mauro Masi, Lorenza Lei, e adesso, formalmente dal 2011, Silvia Calandrelli, con vicedirettore Giuseppe Giannotti.
“Rai Storia” fa uno share da prefisso telefonico: 0,21%, ascolto medio 29.712, (dati del mese di marzo 2020). Per “Rai Scuola” (direttore dal 2011, Silvia Calandrelli) il mese di marzo (quando le scuole erano chiuse in tutta Italia) segna dei dati a mio parere imbarazzanti: share 0,02%, ascolto medio 2.771. C’è bisogno di commentare?
Per “Rai 5”, siano sempre ai prefissi telefonici: 0,36% di share, con ascolti medi 49.935. Mandano in onda dei programmi (spesso registrazioni) senza annunciarli, o annunciano una cosa e ne mandano in onda un’altra. Tanto a chi importa? Si tenga conto che esiste anche “un responsabile Canale Rai5 della Direzione Cultura”: Piero Alessandro Corsini, (55 anni, romano, € 240.000): “Da novembre 2017, ferma restando la qualifica di Direttore ad personam, è responsabile del Canale Rai 5 della Direzione Rai Cultura.” Notate il “ferma restando la qualifica di direttore ad personam”, non sia mai che venga dimenticata.
Cosa volete che importi a qualcuno se queste reti fanno degli ascolti ridicoli? Mica si viene valutati per meriti e per obiettivi raggiunti. A un certo livello della Rai quello che conta sono le marchette politiche. (3/continua)
Paolino Casamari
(venerdì 26 giugno 2020)