Lunedì, 25 gennaio 2021. Primo giorno di riapertura delle scuole superiori in Lombardia.
Dopo un lungo periodo di didattica a distanza al 100%, si torna a vedere il tumulto chiassoso degli studenti assembrati (ahimè) all’ingresso della scuola, per quanto dimezzati nei numeri – è prevista una presenza a rotazione dal 50% al 75% degli studenti. Si sente di nuovo il vocìo, il chiacchiericcio, la risata di qualcuno che, dopo lunghi mesi di isolamento, rompe il silenzio; anche in classe, anche dove, prima, non si sarebbe potuto chiacchierare.
Grande aspettativa per questo rientro, dunque.
Aspettativa che, nella scuola a cui appartengo, in verità non era tale: nel mio liceo monzese, l’ultima settimana di gennaio prevede tradizionalmente una sospensione della didattica. Corsi di recupero, approfondimenti culturali, conferenze e dibattiti, spesso tenuti anche da studenti, prendono il posto dell’attività didattica “normale”. Ciò avviene anche quest’anno: i docenti hanno strutturato una settimana di didattica alternativa, a classi aperte, interamente on line. Uno sforzo organizzativo non da poco, che però si spera generi molti risultati, soprattutto riguardo alla qualità dell’esperienza di una scuola che torni ad essere, soprattutto in questo periodo, luogo di vita.
Luogo virtuale, certo: ma ormai, l’abbattimento delle barriere che, prima dell’avvento del Web, differenziavano un luogo dall’altro fa sì che la nozione di “luogo” sia associata a un’esperienza, al fatto di condividere contesti che ci vedano lì, insieme ad altri, dentro uno spazio che è vissuto come tale perché tale lo definisce la rete – o meglio, un certo uso della rete, la cui vastità ci offre l’opportunità di scegliere via via quali siano i nostri “luoghi”.
Ecco perché la scuola può, comunque, essere luogo di vita. Anche oggi. Nelle nostre giornate, che scorrono apparentemente sempre uguali, nella routine letto-scrivania-cucina-letto, non siamo più solo online. Siamo on life: sempre connessi, sempre con qualcuno all’altro capo della fibra, che vede, ascolta, interviene. Che sia l’insegnante che spiega una lezione, o l’amico che risolve per sé e per gli altri il compito di matematica, o la compagna che dà indicazioni sulla versione di latino. O ancora, che siano il padre o la madre, la fidanzata, l’amica: una molteplicità di relazioni si gioca, comunque, sempre nella rete.
Allora, la sfida vera è aumentare la qualità di queste relazioni. Non solo o non tanto accanirsi sull’idea del rientro in presenza ad ogni costo. Certo, saremo felicissimi quando, finalmente, potremo rivedere i nostri ragazzi e ragazze, fisicamente lì, presenti, occhi cuore cervello, con le loro voci e i loro volti, non mediati dallo schermo. Ma altrettanto felici dobbiamo e possiamo essere quando oggi li guardiamo, o li ascoltiamo, attraverso una videocamera. E proviamo a interpretare un silenzio, cogliere uno sguardo, individuare uno stato d’animo. Difficile, ma obbligatorio.
Certamente, mancano anche altre cose: manca il contatto con i colleghi, spesso fugace, ma comunque arricchente e stimolante. Mancano i minuti di pausa tra una lezione e l’altra, tra una riunione e l’altra, in cui si valorizza il piacere di condividere un momento di relax e due chiacchiere sui ragazzi, su un libro o sull’ultimo concerto ascoltato.
Mi rammarica dover dire, però, che forse non ce lo possiamo ancora permettere. Che dovendo misurare, da una parte, l’impatto sulla nostra vita di quella presenza, di quegli sguardi, e dall’altra, il rischio rappresentato da un virus strisciante e multiforme che attacca la popolazione in modo ormai quasi indipendente dalla fascia d’età, non avrei dubbi.
Ancora oggi, Walter Ricciardi, docente di Igiene e consulente del Ministro Speranza, e Massimo Galli, infettivologo e primario al Sacco, hanno asserito in due interviste separate che il virus corre molto più di quanto appaia sia dai dati che dalle considerazioni dei membri del Cts, e che le scuole possono essere un acceleratore di trasmissione più temibile di quanto si pensasse, poiché movimentano un gran numero di persone.
Non possiamo tornare.
E non potremo, comunque, tornare indietro, nei modi e nei luoghi in cui si fa scuola. La didattica digitale integrata (DDI) rappresenta non solo un limite, ma anche un vantaggio. Se potessimo e sapessimo davvero usare in modo diffuso e approfondito gli strumenti tecnologici a disposizione, la qualità del nostro sforzo educativo e didattico sarebbe molto maggiore. Pensiamo solo all’uso della multimedialità: quanto potremmo stimolare le intelligenze multiple dei nostri studenti, utilizzandola bene! Quante esperienze di apprendimento potremmo generare, se fossimo più consapevoli del principio di Meyerson, secondo il quale la funzione delle attività culturali collettive (quindi anche dell’esperienza collettiva dell’apprendimento) è di produrre opere che abbiano un’esistenza autonoma, le quali a loro volta creano modi di pensare comuni, su cui individui e gruppi si orientano, negoziano, scelgono. Ecco che allora la classe, anche quella virtuale, diventerebbe laboratorio aperto di una produzione culturale dalla quale fiorirebbero nuove idee, approcci, stili di pensiero. E questo processo potrebbe a sua volta coinvolgere noi: i docenti, troppo spesso “cristallizzati” nella loro attività di ripetitori di lezioni che, oggi più che mai, non ha senso gestire ancora in modo frontale (lo spazio della rete non è lo spazio euclideo, questo ormai l’abbiamo capito), e che invece hanno il desiderio e il bisogno di tornare ad arricchirsi attraverso lo scambio reciproco, in tutta la sua dimensione umana, non imprigionata dai lacci della burocrazia (che purtroppo non molla la presa, nemmeno in tempi di Covid) né dalle barriere tecnologiche.
Abbattiamo, dunque, anche queste barriere. Facciamo in modo che lo strumento tecnologico diventi il fattore potenziante di un processo tanto naturale quanto antico: la curiosità. E allora ben vengano le ricerche di gruppo a distanza, in cui ognuno deve saper individuare e utilizzare fonti originali e affidabili riguardo alle diverse discipline, sapendo dove e come scovare spunti innovativi ma credibili, documenti interessanti, magari in lingua originale (ah, l’inglese: ormai dovrebbe essere la seconda lingua madre…). Usiamo davvero, senza averne timore, la rete, i tablet e finanche i cellulari, educando gli studenti all’uso ben finalizzato e consapevole di questi strumenti, che non devono restare – nemmeno quando si tornerà davvero tutti in presenza – relegati al presunto ruolo di pericolosi detrattori d’attenzione, o, peggio, facilitatori di attacchi cyberbullistici o di scambi di foto sexy.
Naturalmente, anche in questo caso i rischi ci sono. Bisogna conoscere molto bene gli strumenti per insegnare ad utilizzarli efficacemente e responsabilmente: e qui casca l’asino. Perché, se noi docenti abbiamo fatto passi da gigante riguardo all’uso delle tecnologie, il nostro grado di abilità e di consapevolezza non è ancora, in molti casi, adeguato. Spesso ci troviamo di fronte ad allievi che, in quanto nativi digitali, la sanno molto più lunga di noi. Spessissimo abbiamo la tentazione di usare sì strumenti nuovi, ma in modo “vecchio”: il pc con la videocamera per dettare appunti, la condivisione dello schermo per leggere insieme il libro di testo in formato pdf… Meglio che niente, certo: ma nulla a che vedere con l’uso abile e creativo delle tecnologie. Che sarebbero straordinari attivatori dell’apprendimento, per allievi guidati da un docente che fosse abile motivatore e regista consapevole di un processo generativo. E che, usate come mezzi interattivi, abbatterebbero un’ulteriore, importantissima barriera: quella delle diversità.
Una cultura dell’educazione realmente inclusiva potrebbe essere promossa anche attraverso l’uso consapevole degli strumenti informatici per raggiungere tutti, dar modo a ciascuno di esprimersi e di lavorare al di là degli eventuali ostacoli fisici o psichici, delle diversità linguistiche o dei divari socioeconomici. A patto che si favorisca, da parte della collettività – e quindi delle istituzioni – il possesso e la capacità d’uso di tali strumenti da parte di tutti, anche delle famiglie più fragili, dei meno abbienti, di coloro che spesso restano “fuori”. Che si offrano risorse a coloro che, nella nuova era post-Covid, rischiano l’emarginazione. Che si potenzi, e si strutturi in modo più innovativo e adeguato, la formazione dei docenti. Che si incrementi la creatività e la progettualità nei contesti aziendali, in cui la tecnologia deve essere lo strumento, ma non il fine, del lavoro.
Che si lotti consapevolmente, insomma, contro un digital divide che rischia di scavare solchi sempre più profondi tra quelli che sanno e quelli che non sanno, tra quelli che riescono e quelli che non riescono, tra quelli che esistono e quelli che non esistono.
Barbara Ongaro
(lunedì 25 gennaio 2021)