Nelle scorse settimane sono apparse sui siti dedicati e sulla stampa specializzata alcuni peana di giubilo per quella che, a detta di questi agiografi sarebbe il completamento dello spettacolare intervento di Porta Nuova, e cioè la parziale distruzione di un documento storico come il Palazzo degli Uffici Tecnici del Comune di Milano e la sua sostituzione con un edificio a torre ricoperto di verde.
Ci sia consentito di dissentire da questi poco comprensibili entusiasmi per qualche albero che copre architetture per il resto prive di altre qualità : certamente i giardini pensili sono sempre stati un arricchimento, se ben progettati , dei quartieri urbani, con la varietà dell’elemento naturale che ingentilisce la severità geometrica , che resta tuttavia il senso proprio dell’architettura ; tuttavia di qui a ritenere che una disordinata abbondanza di arbusti sia in grado ipso facto di trasformare un edificio anodino in buona architettura il passo è veramente troppo lungo.
Naturale e artificiale sono categorie dialettiche da quando esiste l’architettura, e nessuna tra le più famose definizioni di architettura – Michelangelo, Le Corbusier, Schelling , Ruskin, Oscar Wilde, Siegfried Giedion, Ludwig Wittgenstein, Brancusi, Nietzsche, fino ai più vicini a noi Giancarlo De Carlo, Luigi Snozzi e Renzo Piano – contempla l’abuso del vegetale come un mezzo idoneo a raggiungerla. Qui si tratta, purtroppo, della sopraffazione del chiasso sulla musica, di un bombardamento pubblicitario che, in assenza e contro la recherche patiente di lecorbusiana memoria, si accontenta di slogan che coprono la mancanza di idee.
Ma , tralasciando queste considerazioni mosse dal fastidio per un atteggiamento celebrativo veramente inadeguato ed incomprensibile, nel caso del Pirellino la questione è molto più grave : l’attuale progetto fa scempio del monumento, alterandone completamente gli elementi compositivi e le relazioni percettive con il paesaggio urbano e la memoria della città.
Il Palazzo per gli Uffici Tecnici del Comune di Milano è stato realizzato dal 1955 al 1966 su progetto di Renato Bazzoni, Luigi Fratino, Vittorio Gandolfi e Aldo Putelli , in una stagione che tutti ritengono particolarmente felice per l’architettura milanese : gli anni (che alcuni critici hanno definito del razionalismo psicologico) in cui , superando la rigorosa ortodossia dei maestri d’Oltralpe , architetti come Gio Ponti, Franco Albini e Franca Helg, Ignazio Gardella , Vico Magistretti , Lodovico Belgiojoso , Ernesto Rogers, Figini e Pollini , Marco Zanuso, Melchiorre Bega, Alberto Rosselli, Piero Portaluppi , Carlo De Carli, Giovanni Muzio , Vittoriano Vigano, Achille e Piergiacomo Castiglioni , Luigi Mattioni , gli architetti prima citati e tanti altri, hanno dato un contributo significativo alla ricostruzione della città, profondamente segnata dalle distruzioni del conflitto da poco terminato, conferendole quel particolare carattere che identifica Milano forse in misura maggiore delle parti più antiche della città : spazi come piazza della Repubblica , via Vittor Pisani , piazza Cinque Giornate , via Turati , corso Matteotti, corso Europa e Largo Augusto, via Larga , piazza Cavour , piazza Fontana, via Fatebenefratelli , via Manzoni ………. e tanti altri, non sarebbero tali senza il contributo di quella folta schiera di architetti che, sotto la guida dei personaggi più noti, hanno contrassegnato un’epoca.
Di questa stagione il Palazzo degli Uffici Tecnici, unitamente all’adiacente palazzo della Telecom (di Melchiorre Bega) ; al Residence Porta Nuova (di Marco Zanuso) ; alla Stazione Garibaldi (di Eugenio Gentili Tedeschi e Giulio Minoletti) ; alla Torre Galfa (ancora di Melchiorre Bega) rappresentano gli elementi storici fondativi del Centro Direzionale previsto dal Piano Regolatore Generale del 1953, che ha finalmente trovato una configurazione architettonica dopo essere stato per oltre cinquant’anni il vuoto urbano per eccellenza, fonte inesauribile del dibattito architettonico locale : non esiste probabilmente a Milano un architetto laureatosi al Politecnico dagli anni sessanta in poi, che non si sia cimentato almeno una volta nel corso degli studi con la riforma del vuoto delle “Varesine” ; non c’è architetto (e non solo , ma ingegnere , geometra e perito edile) che non abbia sostato trepidante nei corridoi del ponte di via Gioia nei tempi infiniti, carichi d’ansia, dell’attesa di un appuntamento con i funzionari dell’Ufficio Tecnico, moderne Sibille dal cui responso dipendeva la vita o la morte del progetto a lungo coltivato.
Dicano pure, i Soloni della nuova architettura degli alberi che queste sono solo nostalgie per un tempo passato: assistere alla distruzione del mitico ponte e all’annullamento del carattere peculiare della torre, per vederli sostituiti da un patetico affiancamento con il solito parallelepipedo camuffato e sospeso sul nulla (contro ogni regola vitruviana) , fa proprio una grande tristezza, ma anche rabbia per l’inutilità di queste distruzioni.
Certo, si potrebbe anche invocare contro questo scempio il Decreto Legge n°217 del 2016 , pienamente in vigore al momento della vendita dell’edificio da parte del Comune, che sancisce il termine di cinquant’anni (per un edificio pubblico) per il vincolo automatico all’intangibilità del monumento architettonico ; e allora ci sarebbe certamente qualcuno a ribattere che il Mibact ha lasciato correre sul tema con una propria nota ad hoc , pur di evitare controversie sul precedente Decreto n°70/2011, che innalzava a settant’anni questo termine, anche se il testo del Decreto n° 217 è inequivocabile.
Ma è proprio necessario essere obbligati da decreti, decretini , commi e codicilli, per conservare il nostro patrimonio culturale , significativo per la storia della città e per l’attuale paesaggio urbano ? ciò che non è tutelato da una ferrea legge può essere allora impunemente distrutto ? possiamo quindi far scempio della Torre Velasca di Belgiojoso, Peressutti e Rogers ; della Facoltà di Architettura del Politecnico di Ponti e Portaluppi; del Centro Svizzero; della Permanente in via Turati dei fratelli Castiglioni; del Palazzo Montecatini di largo Donegani ; dell’Università Bocconi di Muzio ; dell’albergo di Figini e Pollini in largo Augusto; della Chiesa di S.Francesco di Ponti,Fornaroli e Rosselli del 1954 o della sede di Assolombarda in via Pantano dei medesimi progettisti; del Padiglione d’Arte Contemporanea di Ignazio Gardella ; della biblioteca al Parco Sempione di Ico Parisi , e degli innumerevoli edifici di qualità che sono la nostra città , più che abbellirla ? solo perchè non sono passati cinquanta o settant’anni dalla loro costruzione ? E con quali vantaggi, poi , per la collettività ? è forse un valore che nella zona più accessibile della città, servita da tre metropolitane , dalle ferrovie e dal passante ferroviario, l’unico edificio pubblico rimasto sia Palazzo Lombardia , e il Comune di Milano sia assente ?
E ancora : in una fase in cui l’esigenza di uffici privati diminuisce drasticamente e si parla di un loro riutilizzo più aperto alla socializzazione , all’incontro , alle attività ludiche (“Il Sole” di giovedì 4 marzo) la piastra-ponte di via Melchiorre Gioia che collega la biblioteca degli alberi con i giardini Sigmund Freud non è forse un perfetto esempio ante litteram di questo auspicato riuso ? che bisogno abbiamo di regalare qualche altro migliaio di metri quadri a Manfredi Catella (come si è letto sulla stampa cittadina) per poter ottenere qualche scampolo destinato a luogo d’incontro , quando avevamo già a disposizione migliaia di metri quadrati ben costruiti , un potente landmark visibile fin dalla Cassina di Pomm alla Martesana ? e come si concilierà questa nuova realizzazione con la riapertura della Martesana ? Certo , per il Pirellino non s’immaginava un destino così felice come è toccato al suo fratello maggiore, con il costoso ma perfetto restauro filologico, che ci ha restituito e conserverà per anni quello che si può considerare davvero il più bel grattacielo del mondo (con buona pace del boeriano bosco verticale). Ci saremmo accontentati di un destino minore , come quello riservato alla Torre Galfa , ad esempio, con la conservazione del volume e l’aggiornamento degli impianti e delle facciate; oppure come il (peraltro discutibile) intervento sul complesso Telecom all’angolo di viale della Liberazione (palazzo Inter-Generali) oppure, ancora, come per la Stazione Garibaldi , che si è rinnovata conservando il carattere peculiare del progetto di Gentili Tedeschi e Minoletti , e così per il Residence Porta Nuova di Marco Zanuso …….. tutti interventi che non hanno certo rinunciato ad aggiornare l’edificio alle esigenze contemporanee, e nemmeno a consentire al progettista dell’intervento di recupero la riconoscibilità della sua opera ; ma che hanno almeno conservato l’identità e il carattere urbano dell’originale : perché accanirsi proprio sull’edificio simbolo dell’Assessorato all’Edilizia e al Territorio , il luogo dove si sono esaminati , discussi e licenziati per cinquant’anni tutti i progetti della città?
All’inizio degli anni 2000 , quando era ancora vivo il dibattito su quest’area , nonostante l’assegnazione del Concorso del 1991 (allora si chiamava “Garibaldi – Repubblica” , anche se le costruzioni erano solo nel vuoto lasciato dallo scalo ferroviario generato dall’arretramento della stazione) , avevo affidato agli studenti del Laboratorio di Progettazione Architettonica del terzo anno del corso di laurea in Architettura il tema di un possibile rinnovo di questo edificio , con il vincolo di conservazione in sito degli Uffici Tecnici, e la possibilità di costruire eventualmente alcuni (ridotti) volumi. Erano anche gli anni in cui l’Inarch/Lombardia , insieme al Politecnico, premeva sul Comune di Milano e sulla Regione per la costituzione di un Urban Center sul modello di quelli di Parigi, Londra , New York , ecc. , come luogo di documentazione e discussione pubblica dei progetti sulla città.
Il progetto più interessante (che mi sento di condividere ancor oggi) era stato svolto da un gruppo di studenti milanesi : a differenza degli altri non costruiva nuovi edifici, salvaguardando così il valore iconico del complesso all’interno dello spazio aperto : prevedeva infatti la concentrazione di tutti gli uffici tecnici nel corpo alto grazie alle tecnologie informatiche già note ed alla razionalizzazione dei diversi Settori ; il ponte poteva così essere utilizzato per il versante pubblico del progetto e per ambienti d’incontro e di ristoro complementari , d’integrazione con gli spazi a verde circostanti. Al terzo piano erano collocate le attività dell’Urban Center , con il centro di documentazione; il grande auditorium e le sale minori; il modello della città e il plastico virtuale in cui valutare i progetti importanti con il criterio dell’udienza pubblica ; al secondo piano gli studenti avevano immaginato di collocare i depositi culturali; gli archivi di documentazione dei progetti, consultabili come in una biblioteca e direttamente accessibili come all’Archivio di Stato, con salette riservate per eventuali incontri di studio , e il necessario centro stampa; al primo piano, infine , grazie all’inserimento di scale mobili sull’uno e l’altro lato di via Gioia una galleria pedonale collegava i giardini sul lato destro e sinistro , e ospitava una caffetteria , un bar-ristorante , un piccolo market e una libreria dell’architettura (più o meno come quella attuale in Triennale) , aperti 24h/24h come a New York ………. non sarebbe un sogno anche oggi , molto, molto meglio delle presunte meraviglie che ci stanno propinando ?
Claudio Fazzini
(lunedì 15 marzo 2021)
La salvezza dai cretini affidata solo a dei cretini. Siamo messi male, caro Claudio.
Ma coraggio, con la tua competenza,il tuo amore per la nostra città , continua a combattere. Sono con te
Sempre con grande stima e amicizia. L’ allievo Luigi Edoardo Gregotti