La inutilità delle proposte di Fratelli d’Italia e la necessità di una compiuta Federazione Europea
«La Costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto…Tali sono tanto i principi che la stessa Costituzione esplicitamente prevede come limiti assoluti al potere di revisione costituzionale, quale la forma repubblicana (art. 139 Cost.), quanto i principi che, pur non essendo espressamente menzionati fra quelli non assoggettabili al procedimento di revisione costituzionale, appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana». Così afferma la nostra Corte costituzionale nella propria decisione n. 1146 del 1988.
E prosegue sottolineando di aver «già riconosciuto in numerose decisioni come i principi supremi dell’ordinamento costituzionale abbiano una valenza superiore rispetto alle altre norme o leggi di rango costituzionale»: infatti essa ha ritenuto che persino «le disposizioni del Concordato, le quali godono della particolare “copertura costituzionale” fornita dall’art. 7, comma secondo, Cost., non si sottraggono all’accertamento della loro conformità ai “principi supremi dell’ordinamento costituzionale” (v. sentt. nn. 30 del 1971, 12 del 1972, 175 del 1973, 1 del 1977, 18 del 1982)». Inoltre «ha affermato che la legge di esecuzione del Trattato della CEE può essere assoggettata al sindacato di questa Corte “in riferimento ai principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale e ai diritti inalienabili della persona umana” (v. sentt. nn. 183 del 1973, 170 del 1984)».
Insomma, tutti i Trattati internazionali stipulati dall’Italia sono controllabili, nella loro esecuzione nel nostro Paese, dalla Corte costituzionale, che ne può eliminare l’efficacia almeno per la parte che determini un’applicazione contrastante con principi costituzionali supremi. Ecco allora che la Corte decide (sent. n. 132 del 1985) che non è applicabile in Italia, per contrasto con la tutela della vita umana, la Convenzione di Varsavia sul trasporto aereo che stabiliva un basso risarcimento per perdita della vita in caso di disastro. Ecco che la Corte decide (sent. n. 223 del 1986) di non consentire all’Italia l’estradizione di una persona negli USA, benché prevista da un Trattato bilaterale, quando manchi certezza che là non sia assoggettata a pena di morte. Ed è con la sentenza n. 18 del 1982 (sopra citata) che la Corte costituzionale dichiara inapplicabili i Patti lateranensi del 1929 almeno per la parte in cui obbligavano all’automatica applicazione – in Italia – di decisioni di giudici vaticani che avessero emesso una sentenza di diritto canonico di nullità del matrimonio concordatario in violazione di essenziali diritti della difesa di uno dei coniugi.
Tra gli interventi della Corte volti a valutare l’applicazione di parti di Trattati internazionali, come nei casi appena ricordati, non si riscontrano invece decisioni con cui la si impedisce nel nostro ordinamento giuridico rispetto a norme riconducibili all’ambito di efficacia dei Trattati istitutivi delle Comunità (un tempo) e dell’Unione (oggi, quando delle tre Comunità originarie è rimasta la sola CEEA o Euratom). Le sentenze sopra richiamate della Corte costituzionale in tema di CEE sono state semmai rivolte ad avvisare della possibilità, mai concretamente ritenuta verificarsi, di una non applicazione nazionale quando la disciplina comunitaria contrastasse con i principi costituzionali fondamentali italiani o i diritti inalienabili della persona umana sottesi al nostro ordinamento giuridico.
D’altra parte, in epoca di Unione europea la Corte costituzionale si è trovata ad esaminare (sent. n. 115 del 2018) un caso concreto – in materia di frodi all’IVA – di possibile violazione in Italia, ad opera del diritto UE, del delicatissimo principio di legalità costituzionale in materia penale, specie dal punto di vista dell’applicazione retroattiva di una norma più gravemente penalizzante – e non conoscibile dall’imputato – rispetto al diritto vigente all’epoca dello svolgimento dei fatti contestatigli ma eventualmente imposta proprio dal diritto UE. Bene, anche in tale occasione la Corte ha difeso i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale pur dialogando positivamente con la Corte di giustizia dell’Unione europea, anzi proprio seguendo l’impostazione di quest’ultima (v. sent. C- 42/2017) secondo cui non è ammissibile che l’applicazione del diritto dell’Unione europea «comporti una violazione del principio di legalità dei reati e delle pene a causa dell’insufficiente determinatezza della legge applicabile, o dell’applicazione retroattiva di una normativa che impone un regime di punibilità più severo di quello vigente al momento della commissione del reato». E ciò conformemente all’art. 4.2 del Trattato sull’ UE, secondo cui «l’Unione rispetta l’uguaglianza degli Stati membri davanti ai Trattati e la loro identità nazionale, insita nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale».
Quindi l’art. 11 della nostra Costituzione, secondo cui «L’Italia…consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni» e «promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo», resta salvo nella sua applicazione all’Unione europea pur con i limiti da tempo stabiliti del rispetto dei principi fondamentali e dei diritti inalienabili di cui stiamo parlando.
Non viene in tal modo scalfito, in linea generale, il primato del diritto dell’Unione europea sul diritto italiano, allorché il primo contrasti irrimediabilmente col secondo (a parte, non si dimentichi, la salvaguardia dei principi fondamentali e dei diritti inalienabili della persona). Rispetto al diritto UE, quando esso ha natura di diretta applicabilità nell’ordinamento nazionale (come ad esempio accade coi regolamenti, che hanno portata generale, sono obbligatori in tutti i loro elementi e direttamente applicabili in ciascuno degli Stati membri) e si verifica il conflitto insanabile, qualsiasi organo dell’amministrazione pubblica italiana – i giudici in particolare – ha il compito di disapplicare (non applicare) la norma interna confliggente e di applicare al suo posto la disposizione regolamentare UE. Se il contrasto insanabile riguarda invece il rapporto fra una norma nazionale e una disposizione di diritto dell’Unione non direttamente applicabile è la Corte costituzionale stessa a dover dichiarare l’incostituzionalità della norma interna (secondo il principio di supremazia esplicitato dall’art. 117 della Costituzione, di cui subito oltre si dirà).
Per fugare perplessità possibili sul contenuto dell’art. 11 sopra citato della Costituzione, ricordo che alla sola organizzazione internazionale rappresentata dalla UE la Corte costituzionale riferisce la prescrizione sulle limitazioni di sovranità. E se tali limitazioni sono da accettare – in comune – da tutti i Paesi partecipanti (oggi 27), in nome della ricerca di un’effettiva sovranità condivisa e di una reale indipendenza europea rispetto agli Stati-potenze (Usa e Cina in primis) che dominano le reazioni internazionali, il riferimento alle «condizioni di parità» sta a dire non che a tutti gli Stati membri debba esser riservato un trattamento sempre incongruamente egualitario entro la UE, ma che le norme dell’Unione debbano applicarsi tenendo conto delle differenze sussistenti fra Stato e Stato. Esse possono ben esserci ad esempio in materia economica dove l’Italia, con un debito pubblico superiore nel 2021 al 150% del proprio PIL (oggi è al 147%) e comunque avendo raggiunto il record storico di indebitamento di 2.766,4 miliardi di euro, deve esser trattata diversamente da chi ha percentuali anche significativamente diverse.
Proprio alle «condizioni di parità» è affezionato il partito dei Fratelli d’Italia, a caccia di modifiche della Costituzione che consentano di affermarne presunti principi sovranisti a beneficio dell’elettorato credulone. L’atto della Camera dei deputati n. 291 del 2018 auspica, con prima firma Meloni, «modifiche agli articoli 11 e 117 della Costituzione, concernenti l’introduzione del principio di sovranità [proprio così, inutilmente, si scrive] rispetto all’ordinamento dell’Unione europea». La proposta intende anzitutto che all’art. 11 sia aggiunta la frase: «Le norme dei Trattati e degli altri atti dell’Unione europea sono applicabili a condizione di parità e solo in quanto compatibili con i principi di sovranità, democrazia e sussidiarietà, nonché con gli altri principi della Costituzione italiana». Poi si vuole che il primo comma dell’art. 117 – dove ora è affermato il primato, sulle leggi dello Stato e delle regioni, sia della Costituzione sia dei «vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario» e dagli altri «obblighi internazionali» pattizi (come ad esempio la Convenzione europea dei diritti dell’uomo) – venga ridotto alla semplice (e inutile perché tautologica) formulazione: «La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle regioni nel rispetto delle competenze a essi spettanti».
In aggiunta, un’altra proposta di legge costituzionale (atto Camera n. 298 del 2018), sempre a prima firma Meloni, si propone di introdurre modifiche agli articoli 97 e 119 della Costituzione sopprimendo le attuali previsioni di «coerenza con l’ordinamento dell’Unione europea» (art. 97) e di «osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea» (art. 119). Insomma, è stata aperta la caccia all’espressione «Unione europea»!
Per non sbagliare la proposta ritorna sul primo comma dell’art.117 della Costituzione e ne propone una versione parzialmente, e sempre inutilmente, diversa dall’atto Camera n. 291: «La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle regioni nel rispetto della Costituzione». Si sono invece dimenticati, i Fratelli d’Italia, dell’art. 81 della Costituzione, dove ora non appare l’espressione Unione europea ma che è stato modificato nel 2012, su impulso del governo Monti, per introdurre nella Carta fondamentale quel «principio del pareggio di bilancio» che il Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governancenell’Unione economica e monetaria (cd. Fiscal compact) suggeriva (non imponeva) di attuare a livello costituzionale. Detto fra parentesi: Giorgia Meloni votò sia la fiducia al governo Monti, che aveva scalzato il Governo Berlusconi nato nel 2008, sia l’inserimento in Costituzione del principio appena ricordato.
E giacché tutto si … lega non posso non ricordare che pure il partito della Lega ha presentato (atto Senato n. 1838 del 2020) una simile proposta di modifica almeno dell’art. 117 della Costituzione.
Insomma, siamo dinanzi a proposte in parte inutili, a esser benevoli, e in parte, a esser precisi, incostituzionali o capaci di contrapporre l’Italia all’ordinamento UE, come di recente avvenuto per Polonia e Ungheria con caratteristiche di sistematicità e persino, con caratteristiche di occasionalità, con la Germania al tempo della sentenza del Bundesverfassungsgericht del 5 maggio 2020, riguardante il programma di acquisto di titoli pubblici da parte della BCE. Certe affermazioni lì contenute hanno indotto la Corte di giustizia dell’UE a ricordare (comunicato n. 58/20) che «solo la Corte di giustizia… è competente a constatare che un atto di un’istituzione dell’Unione è contrario al diritto dell’Unione» e che «eventuali divergenze tra i giudici degli Stati membri in merito alla validità di atti del genere potrebbero compromettere…l’unità dell’ordinamento giuridico dell’Unione e pregiudicare la certezza del diritto», cosicché, «al pari di altre autorità degli Stati membri, i giudici nazionali sono obbligati a garantire la piena efficacia del diritto dell’Unione…Solo in questo modo può essere garantita l’uguaglianza degli Stati membri nell’Unione da essi creata».
Ah, dimenticavo! La sentenza di Corte costituzionale che citavo subito all’inizio arriva pure ad aggiungere come la Corte stessa «sia competente a giudicare sulla conformità delle leggi di revisione costituzionale e delle altre leggi costituzionali anche nei confronti dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale». Cioè, una riforma della Costituzione italiana approvata con le debite procedure dal Parlamento, e persino confermata da un referendum popolare, potrebbe esser sottoposta al vaglio della Consulta, con la conseguenza di vederla dichiarata illegittima quando contrastante con quei principi supremi, tra i quali c’è l’obbligo di cooperazione internazionale spinto fino alle limitazioni di sovranità condivise per garantire reali condizioni di «pace e giustizia fra le Nazioni» come previsto dall’art. 11. Il che potrebbe accadere ove un qualche progetto di modifica costituzionale, tra quelli menzionati, arrivasse sciaguratamente a perfezionarsi.
Viceversa, è bene pensare e rapidamente compiere – nell’attuale drammaticamente protratta temperie internazionale – concreti percorsi di approfondimento dell’integrazione “comunitaria” in seno alla UE per arrivare a una compiuta federazione, magari fra alcuni soltanto degli Stati attualmente membri ma compresa l’Italia. E ciò pur dopo il non entusiasmante esercizio offerto dai lavori della Conferenza per il futuro dell’Europa, conclusi il 9 maggio di quest’anno. Non c’è più tempo. O, almeno, si può dire con san Paolo che «i tempi si sono fatti stretti» (prima lettera ai Corinzi, 7,29). Le Nazioni europee debbono diventare Sister States, come lo sono tra loro – così dice la lingua inglese – i 50 Stati federati degli USA.
Dino Guido Rinoldi
Ordinario di Diritto dell’Unione europea
nell’Università Cattolica del Sacro Cuore
(mercoledì 17 agosto 2022)