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L’America immaginata

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Parlavamo, la volta scorsa, della “morte” del Mito americano. E dire che fino a neanche troppo tempo fa – con qualche eccezione di fondamentalismo politico dovuto agli schieramenti della Guerra Fredda – eravamo tutti americani.

Persino gli irriducibili massimalisti livornesi, eredi della scissione comunista del 1921, erano tra i più assidui frequentatori del locale mercatino americano di Piazza XX Settembre, trionfo di esotismo yankee, che affondava le radici nelle macerie della Seconda guerra mondiale. Già, perché con la liberazione, l’arrivo degli americani nella neo-nata base militare di Camp Darby, nella adiacente pineta di Tombolo – da cui, di contrabbando, usciva di tutto – il mercatino di Livorno era diventato un pezzo d’America all’interno di una delle città più “rosse” d’Italia. Ci si trovava di tutto: sigarette, ketchup, penicillina, aspirine originali, t-shirt come quelle indossate da James Dean (che, però, qui, in realtà, arrivavano taroccate da Prato), preservativi in confezioni da 80 pezzi, fino a saponette miracolose per malattie veneree (grazie alla presenza dei militari americani, le «signorine» facevano gli straordinari).

L’America, o meglio l’americanismo, era continua fonte di ispirazione per tutta una serie di nuovi comportamenti sociali che, nel primo dopoguerra, terremoteranno la vita familiare, sessuale, ma soprattutto culturale di milioni di italiani e di italiane, e che avrà il suo acme con l’introduzione, nel dicembre 1970, del divorzio nella legislazione della Repubblica.

L’American Way of Life, era perciò diventato il modello di riferimento per lo sviluppo economico e sociale dell’Italia. Fu così che ogni italiano si costruì la propria America immaginata, un’America che non c’era, come quella parodisticamente raccontata in Un americano a Roma, da Alberto Sordi nella parte di Nando Mericoni, “americano der Kansas City”.

L’esaltazione del mito esterofilo di un paese immaginato, vagheggiato e concupito, avrà anche la sua colonna sonora, in salsa partenopea, con quel Tu vuo’ fa’ l’americano del geniale Renato Carosone. Avrà persino i suoi detective “all’americana”, ovvero l’Ubaldo Lay in versione Tenente Sheridan, e il Cesare Polacco interprete dell’ispettore Rock, quello che aveva commesso un solo errore: era calvo perché non aveva usato una certa brillantina.

In Italia, comunque, la stagione americana era nata anni prima del dopoguerra, verso il 1930, in pieno regime autarchico-fascista, quando alcuni giovani intellettuali di allora scoprirono un mondo di libri firmati Steinbeck, Caldwell, Saroyan, Lewis. Il “Grande Laboratorio”, lo chiamerà Cesare Pavese, scrittore, traduttore e studioso entusiasta di letteratura americana. Con questi autori arriverà in Italia anche il sospetto che non tutto, nella vita, finisse con i fasci.

Scriveva Pavese a proposito degli americani e della loro cultura: «Siete quanto di meglio c’è al mondo! Non solo per ricchezza e livello di vita materiale, ma proprio come vitalità e forza artistica, il che significa pensiero e politica e religione e tutto. Vi è toccato il predominio in questo secolo su tutto il mondo civilizzato come già accadde alla Grecia e all’Italia e alla Francia. Ne sono sicuro. Ognuno dei vostri scrittori meritevoli scopre un nuovo terreno d’esistenza, un nuovo mondo e ne scrive con una sincerità e immediatezza di spirito».

Ma fu essenzialmente la sconfitta del nazifascismo da parte delle truppe alleate, che in Italia, più che altrove in Europa, portò alla nascita di un feeling immediato e debordante, e a irripetibili fenomeni autoctoni che andavano dall’americanismo in salsa piemontese di Fred Buscaglione – che cantava, parodiandoli, personaggi alla Mickey Spillane, eroi della malavita che nella sua versione diventano bulli fregnoni e pupe proto-femministe, come quelli protagonisti della celebre Eri piccola così – alla falsa epopea del West narrata nelle pellicole spaghetti-western di Sergio Leone.

Insomma, il Mito americano come Grande Falso. Scriveva, a questo proposito, un semiologo del calibro di Omar Calabrese: «L’America dei Non-Americani è l’affresco di un gigantesco, enorme, colossale falso. Un falso perpetrato però non da falsari, ma addirittura da noi stessi consumatori culturali. Il falso dell’America che desideriamo, vogliamo e probabilmente ci meritiamo. Ma come ogni falso, questa America posticcia e fittizia ha il fascino dell’avventura, della fantasia, dell’immaginazione».

Franco Cologni

(lunedì 16 dicembre 2019)

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