Ah, quanto era dolce la Guerra Fredda…! Ma ci avete badato? Dopo la Seconda Guerra Mondiale, l’Europa è vissuta in pace, e a prezzo vile, più o meno per mezzo secolo. Nel senso che fino agli anni Novanta nessun conflitto bellico ha coinvolto i Paesi europei. I quali Paesi europei, quelli occidentali almeno, hanno speso in quel periodo proprio poco per la difesa: un risparmio che ha avuto il suo peso nel catch up delle economie del Vecchio Continente verso l’America, gendarme del Mondo e difensore della Democrazia.
Certo, non è stato tutto rose e fiori. Come dimenticare Portella delle Ginestre, i morti di Reggio Emilia, Piazza Fontana, la Stazione di Bologna, le Brigate Rosse, la Rote Armee Faktion, la Domenica di sangue di Belfast e l’Ira, l’Eta in Spagna. C’è stata violenza al di qua della Cortina di Ferro. E ancora ne piangiamo le vittime. E al di là della Cortina, peggio. Nel 1953 la polizia tedesco-orientale che spara agli operai di Berlino Est. Nel 1956 i carri sovietici che schiacciano la rivoluzione ungherese. Nel 1968, le truppe del Patto di Varsavia che soffocano la Primavera di Praga. Anche di quei martiri della libertà conserviamo una memoria viva e dolorante. Ma dopo? Dopo la Caduta del Muro di Berlino e la Dissoluzione dell’Unione Sovietica, avvenute entrambe in modo pacifico, quante uccisioni sono state perpetrate nei Balcani, nel Caucaso e ora in Ucraina?
La contabilità delle vittime è un esercizio macabro. Ma ci sarà pure uno storico con vocazione cimiteriale che certificherà il reale numero delle persone ammazzate da eserciti e milizie dopo il superamento dei Blocchi militari contrapposti. A occhio è già oggi un multiplo delle vittime della Guerra Fredda.
Una tale contabilità, intendiamoci, non spiega tutto. Anzi, può essere gravemente distorsiva ove fosse presa tel quel per alimentare il rimpianto irragionevole di un passato che non torna, estrema nostalgia del Comunismo che fu. E tuttavia… Proviamo a mettere tra parentesi le ideologie (falsa coscienza perfino per Marx) e a concentrarci sulla cruda realtà. Cinicamente? Sì, cinicamente. Non meno cinicamente (e mi auguro meno stupidamente) di chi si inventò le armi di distruzione di massa per muovere guerra a Saddam.
La realtà degli Stati Uniti, anzitutto. Negli anni Cinquanta, Washington governava un impero esteso sui cinque continenti. Qualcuno obietterà che l’espressione impero è impropria perché i Paesi europei occidentali, il Giappone, l’Australia erano (e sono) Paesi liberi. E l’Africa, l’America Latina, tanta parte dell’Asia? USA ed Europa non sono innocenti, ma transeat: a noi eurocentrici, felici di essere culturalmente scorretti, interessano i Paesi ricchi, gli altri fanno solo colore, e alcuni di noi giustificano pure il colonialismo viste le successive performance delle borghesie compradores. Pertanto, noi insistiamo sul concetto di impero – di impero americano – perché erano e sono gli Stati Uniti a garantire la sicurezza del Mondo Libero. La storia post anni Cinquanta ne ha ridotto il perimetro politico, lo sappiamo, ma l’impero è ancora lì. E la forza tecnologica della Silicon Valley ne ha perfino esteso l’influenza su scala globale.
E poi c’è la realtà della Russia. Sì, dell’impero russo. Un impero con le pezze sul sedere? Sì, proprio così, con le pezze ma anche con i cannoni e la disponibilità a usarli. L’Unione Sovietica, è ormai saggezza convenzionale, è stata la prosecuzione dell’impero zarista sotto altro regime politico. Un impero dove a comandare è sempre la Russia e a obbedire sono i “Paesi fratelli”, poco importa che siano le ex colonie promosse repubbliche socialiste federate nell’Urss o che siano le repubbliche popolari est europee. Dell’impero russo ha fatto parte anche la Cina, approdata al Socialismo nel 1949, ma ben presto Pechino ha seguito una sua strada, con risultati molto più rilevanti. E’ oggi, la Cina, il convitato di pietra nella confrontation tra Occidente e Russia, ma è talmente importante che merita un discorso a sé.
La Guerra Fredda, dunque, era in buona sostanza la coesistenza competitiva ma pacifica tra due imperi. Che nutrivano l’uno per l’altro una radicale ostilità ideologica e una fiera opposizione strategica, ma anche un duraturo rispetto dettato dalla paura reciproca. Di conseguenza, Stati Uniti e Russia si riconoscevano l’un l’altro il diritto di riportare all’ordine, anche con la forza, le province riottose dei loro dominii. Un duopolio della violenza statuale conclamato, che ha ridotto a poca cosa le fuoriuscite dai binari dei riformisti e dei rivoluzionari, più numerosi a Est che a Ovest, che sognavano di cambiare lo status quo.
Questo equilibrio si è profondamente incrinato con la fine dell’Unione Sovietica. E il tramonto dei suoi miti unificanti ha lasciato campo libero all’affermazione delle identità nazionali, sostenute dagli USA e dal Regno Unito, specialmente. Una drastica riduzione di rango per la Russia perdente. Le terribili guerre civili nei Balcani, divampate in seguito alla dissoluzione della Jugoslavia post Tito, contigua all’impero russo, hanno dimostrato quanto male possa venire dai nazionalismi autoctoni che si appoggiano alla pelosa compiacenza dei Paesi europei, dettata da miopi e inconfessabili convenienze economiche e religiose di talune democrazie occidentali. Ma per quanto terribili quelle guerre civili potrebbero non essere nulla rispetto al disastro che può maturare tra le province dell’impero sconfitto.
Annichilire la Russia (e depredarne le ricchezze com’è avvenuto negli anni Novanta a opera di Eltsin e dei suoi oligarchi d’intesa con la finanza angloamericana) è stata una prepotenza da parte dell’impero vincente, evidentemente incapace di fare tesoro delle lezioni della storia. Napoleone venne esiliato, la Francia tornò a essere un regno tra i regni e non più un impero in Europa, ma non venne umiliata. E le fu lasciata di coltivare il proprio imperialismo Oltremare. E sì che la Francia del Grande Corso aveva insanguinato l’Europa e fatto tremare tutti i troni mescolando ideologia e politica di potenza. La fermezza e la moderazione di Metternich fecero sì che Parigi non mettesse più a ferro e fuoco i vicini. Alla Germania guglielmina, sconfitta nella Grande Guerra, vennero applicate riparazioni di guerra esosissime, nonostante gli autorevoli consigli di Keynes. Una rivincita comprensibile sul piano emotivo che, tuttavia, concimò il terreno sul quale pochi anni dopo si sviluppò il Nazismo.
Adesso, per effetto di tante circostanze che sarebbe troppo lungo ricordare qui, la Russia rialza la testa e pretende di nuovo un impero. Un impero territoriale, com’è nella sua tradizione storica. Le guerre di Putin sembrano avere, si dice, questo obiettivo. Non coltiva ambizioni internazionaliste come l’Unione Sovietica. Vuole vedersi riconoscere uno status che riconosca come prioritario il diritto alla sicurezza della Russia rispetto a quello degli ex membri dell’URSS. Putin non può essere così pazzo da credere che, date le caratteristiche economiche, scientifiche e demografiche della Russia, gli sia possibile avere di più. È di questo che dovremmo parlare con il cinismo che ci ha tante volte ispirato.
Le giustificazioni panslaviste per riunire le provincie separate dell’URSS, magari non proprio tutte, la riscoperta dell’Ortodossia come spada di Cristo di fronte all’islamismo radicale, il protettorato di fatto sulle repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale in chiave anti terroristica sono motivazioni più o meno interessanti delle pretese del Cremlino. Ma contano tanto quanto, anzi meno, della convinzione occidentale che i popoli abbiano il diritto all’autodeterminazione politica, da esercitare in forma democratica. Il fatto è che il rombo dei cannoni costringe a semplificare. E l’Unione europea, prima ancora degli USA, non può evitare di farlo.
La strategia di Putin pone l’Europa di fronte a un dilemma: se riconoscere i “diritti neoimperiali” della Terza Roma, odiosi fin che vogliamo e tuttavia posti sul tappeto dall’Armata Rossa, o se invece riaffermare i “diritti imperiali” degli USA, perché fino a quando la Ue non avrà forze armate paragonabili a quelle americane sarà sempre Washington a condurre le danze (noi europei qualche volta gli pesteremo maldestramente i piedi). La prima opzione prevede il sostanziale abbandono degli oppositori di Putin al loro destino e la negoziazione di confini accettabili dell’impero russo redivivo. Due imperi, due sistemi politici diversi anche se meno antagonisti di un tempo, un capitalismo solo, anche se la Borsa di Mosca è dominata dagli oligarchi, robber barons in ritardo di un secolo e passa, commerci e pace nell’equilibrio del terrore. La seconda opzione prevede un confronto radicale, i cui termini sono già chiari agli analisti (meno alle opinioni pubbliche): rischio di black out e di stagflazione in Occidente nella speranza che le sanzioni, pagate dall’Europa e molto meno dagli USA, pieghino Putin o che, per effetto delle sanzioni, la piazza Rossa si trasformi in una nuova piazza Maidan, vasto programma ove si consideri che non si ha notizia di Battaglioni Azov lungo la Moscova pronti a mobilitarsi al soldo dell’impero americano come avvenne a Kiev nel 2014.
La seconda opzione è quella di gran lunga più vicina al nostro sistema valoriale, ma presuppone due condizioni: a) che l’Europa sia in grado di affrontare una traversata del deserto di qualche anno con gli USA, potenza imperiale, capaci di riequilibrarne le sofferenze assumendosi una parte dei costi; b) che la Cina resti alla finestra e non apra un secondo fronte su Taiwan che avrebbe caratteristiche ben diverse dall’attuale fronte ucraino. Ma, come avevamo detto, Pechino merita un discorso speciale.
Devil
(sabato 26 febbraio 2022)