Poche settimane fa la Business Roundtable – associazione che raggruppa circa 200 tra le maggiori imprese statunitensi – ha pubblicato l’annuale documento sulla governance d’impresa, mettendo al centro non più l’interesse degli azionisti (cosa che accadeva dal 1978, anno della fondazione dell’associazione) ma i temi della Responsabilità Sociale d’Impresa nota anche come Corporate Social Responsibility – Csr. Il documento sostiene che il profitto può essere l’obiettivo di un’impresa soltanto se commisurato allo sviluppo di “un’economia al servizio di tutti gli americani”. Cosa questo significhi è specificato nei seguenti impegni: offrire valore ai clienti; investire sui dipendenti e promuove diversità e inclusione; trattare in modo equo ed etico i fornitori; supportare le comunità del territorio in cui l’impresa opera; proteggere l’ambiente. E, infine, generare valore a lungo termine per gli azionisti.
Alex Gorsky, AD di Johnson & Johnson e presidente del comitato della governance, commentava dicendo che il documento “afferma il ruolo essenziale che le imprese possono svolgere nel migliorare la nostra società quando i CEO sono veramente impegnati a soddisfare le esigenze di tutte le parti interessate”.
Alcuni giorni dopo però alla stessa J&J è stata comminata una multa di 572 milioni di dollari, essendo stata ritenuta responsabile dell’epidemia di oppioidi che negli Usa ha provocato negli ultimi 20 anni la morte di oltre 500.000 persone. Una epidemia nata da “una macchina di marketing iper-aggressivo”, che ha divulgato “notizie parziali, inducendo la filiera medico-paziente a utilizzare gli oppioidi e ignorando deliberatamente il rischio dipendenza”.
Certamente non è questa l’unica disavventura in cui sia incorsa un’impresa che utilizzi la Csr come foglia di fico per nascondere comportamenti disastrosi. Per restare in Italia, basterebbe confrontare la realtà quotidiana di molte imprese con ciò che raccontano nei loro Bilanci Sociali per trovare esempi disdicevoli. Eppure la notizia della multa e le scoperte di discrasie tra ciò che un’impresa dice e ciò che fa devono essere considerati avvenimenti che fanno bene alla Csr perché rendono ancora più attente e critiche le persone. Infatti, se oggi è stato possibile redigere quel documento della Business Roundtable, è perché nei paesi industrializzati la Csr e la correttezza delle imprese diventano sempre più importanti. Cito due argomenti.
I GIOVANI: due anni fa, una ricerca sulle aspettative degli studenti di master e università di tutto il mondo diceva che per il 92,1% lavorare per un’azienda responsabile è talmente importante da entrare, a pieno titolo tra i criteri di scelta del lavoro. Inoltre più del 50% di questi futuri qualificati dipendenti sarebbe disposto a rinunciare al 20% dello stipendio pur di lavorare in un ambiente che pratichi la Csr.
LE BORSE: due casi di scuola. 1) “L’affaire Nike”: dopo la scoperta che in India e in Pakistan l’azienda impiegava lavoro minorile, le azioni precipitarono in cinque mesi da 66 a 39 dollari. E l’azienda dovette investire alcuni milioni di dollari per organizzare un efficiente sistema di Csr mettendo al centro il controllo della filiera. 2) “L’affaire dieselgate”, la truffa che travolse Volkswagen e che causò la perdita di più del 35% del valore delle azioni.
D’altra parte, oggi le persone sono molto più attente che in passato agli aspetti di sostenibilità; sono molto più critiche e informate: oggi, grazie al web, con qualche click si può sapere cosa stia combinando un’impresa dall’altra parte del mondo. E quello che affermava nel 1999 il “Cluetrain manifesto” (un insieme di 95 tesi scritte da economisti e informatici, indirizzate a tutte le imprese “che operano in un mercato interconnesso”) diventa sempre più vero: “È cominciata a livello mondiale una conversazione vigorosa. Attraverso Internet, le persone stanno scoprendo e inventando nuovi modi di condividere le conoscenze pertinenti con incredibile rapidità. Come diretta conseguenza, i mercati stanno diventando più intelligenti e più veloci della maggior parte delle aziende”.
In ogni caso, io credo esistano due pre-condizioni affinché la Csr possa diventare il “senso comune” dell’impresa. La prima l’aveva enunciata anni fa Dario Romano, esperto di psicologia del lavoro: la Responsabilità sociale è efficace soltanto quando “viene assunta come componente centrale della cultura d’impresa e da qui trasferita ai piani e alle strategie di marketing”. Come dire, la Csr deve partire dall’alto e investire a cascata tutta l’impresa, altrimenti il rischio è che le varie iniziative siano “foglie di fico” utili a nascondere comportamenti scorretti.
La seconda ce la annota Paolo d’Anselmi nel volume “Il barbiere di Stalin”, dove riporta in ultima analisi la responsabilità generale a quella personale: alla responsabilità di chi opera in azienda e per l’azienda, ma anche a quella dei clienti che devono essere attenti ai comportamenti dell’impresa. Scrive D’Anselmi: “Il fenomeno di responsabilità ultima dell’individuo viene presentato aneddoticamente in letteratura come il problema del barbiere di Stalin. La figura dell’artigiano (realmente esistito: era georgiano come il Piccolo Padre) è paradigmatica dell’ingannevole natura delle apparenze. Egli non si sentiva responsabile dei delitti del dittatore; era solo responsabile dei suoi baffi, eppure ci metteva del suo quando glieli aggiustava, contribuendo però ad aumentare il fascino che il dittatore esercitava. Inoltre il barbiere di Stalin era l’unico uomo autorizzato a brandire un rasoio accanto alla celebre gola e, come dice Amleto, avrebbe potuto farsi giustizia con l’uso di una nuda lama mentre invece ometteva ogni possibile comportamento oltraggioso nei confronti del suo cliente. A dispetto di chi dissocia la responsabilità del barbiere da quella del suo cliente, l’innocente barbiere aveva quindi una sua parte di responsabilità nei delitti di Stalin: ci proclamiamo tutti innocenti mentre flirtiamo con il male”.
Giacomo Ghidelli
(domenica 22 settembre 2019)
Ringrazio per la citazione de Il Barbiere di Stalin. Vorrei aggiungere che al passo citato è stata mossa la critica seguente: il Barbiere e’ un testo anarchico e non un testo politico perché esso evoca il gesto estremo di tagliare la gola al dittatore. Al riguardo, devo ammettere che nello scrivere il Barbiere mi sono compiaciuto nella citazione dalla fantasia di Amleto: farsi giustizia da sé, con una semplice lama. Ma tutto il resto del Barbiere parla dei delitti sottosoglia che ciascuno perpetra soprattutto a proprio danno. Il Barbiere non pensa a gesti estremi né a dilemmi etici; il Barbiere opera nel quotidiano e nel minuscolo intorno del proprio lavoro e della propria vita. Per questo è il barbiere di Stalin e non di un dittatore qualsiasi, perché di Stalin solo i baffi sono notevoli. Non nell’eroismo anarchico, ma nell’unto della brillantina sta la lezione del Barbiere. paolodanselmi gmail
grande Paolo! Grazie della puntualizzazione.