Si sa come l’interpretazione vichiana della storia, ci parli di cicli. Il ripetersi cioè del senso degli accadimenti storici, mai uguali certamente, ma che, in forme diverse e aggiornate, ripropongono processi che finiscono per avere lo stesso segno. Cicli di progresso, di decadimento, di affermazione di valori alti, di barbarie. Questa è l’alternanza delle vicende storiche, e il loro ripetersi sempre uguali e sempre diverse.
Limitandoci all’ultimo secolo, quello di cui si può avere memoria viva, abbiamo visto davvero di tutto.
E ancora, viviamo un tempo nel quale c’è una sorta di sintesi di una dinamica complessa, di valori e disvalori, di ideali, di ideologie, di idoli.
È evidente che il giudizio morale, politico, culturale e sociale è dettato proprio dal prevalere di un carattere o l’altro, sui processi che accadono.
La prima parte dell’ultimo secolo è segnato da due guerre mondiali, frutto del prevalere di ideali nefandi: il nazionalismo, il bellicismo, la sete di potere, le dittature. Ad essi si contrapponevano ideali positivi, come la pace, la democrazia, l’umanesimo cristiano e socialista.
Con la sconfitta delle guerre per chi le ha volute, tedeschi in testa, si è data anche la sconfitta delle idee che le avevano prodotte.
Ma, parallelamente, gli ideali di un tipo o dell’altro, si evolvevano in ideologie, forti e contrapposte. Un tentativo di coniugare alcune idee di base, con la complessità della storia in una visione unitaria e totalizzante.
In particolare quella del socialismo reale o comunismo, e quella del capitalismo liberale e socialdemocratico che, all’ingrosso, finivano per rappresentarsi anche come contrapposizione fra dittatura e democrazia.
Sappiamo come è andata. Ha vinto il capitalismo. E la democrazia. È rimasta un pò di socialdemocrazia, connotata dal welfare di stampo europeo.
È nata soprattutto l’Europa, una presa di coscienza collettiva ispirata da grandi spiriti e da grandi ideali, proprio come antidoto al pericoloso nazionalismo, che tanti guai aveva provocato con i disastrosi conflitti.
Quell’Europa su cui il dibattito è così attuale, come non mai.
Quell’Europa che ha portato settanta anni di pace e di progresso, in un piccolo continente, teatro per secoli di guerre sanguinose.
È stato, ed è, un ideale di generazioni, fondativo della vita dei singoli e delle comunità etniche e storiche, che ha mescolato culture, storie, costumi, pensieri.
Che oggi ci siano forze e derive nostalgiche di idee e storie di un passato nefando, è tutti i giorni sotto i nostri occhi. Ed è un pericolo vero da scongiurare.
Ma il dato più inquietante, è rappresentato dal consenso popolare su cui queste idee pericolose sembrano poggiare. Un dato sociologico che va interpretato, capito e responsabilmente, e politicamente, gestito.
C’è infatti un punto che sembra abbastanza ignorato, e che preme invece sottolineare, in questo panorama, e in un dibattito dalle mille sfaccettature.
La rabbia e la protesta popolare che si rivolge ai radicalismi reazionari di destra, illudendosi che abbiano una qualche risposta intelligente ed efficace, è una diretta conseguenza delle crescenti diseguaglianze che segnano la società contemporanea, ovunque, e i trend evolutivi inarrestabili in atto.
Abbiamo detto che il capitalismo ha vinto. Ma non gli è bastato. È diventato sempre più avido ed arrogante. E anche politicamente dominante. Cosi che quella che, per sua “natura”, doveva essere la “scienza dei mezzi”, cioè l’economia, è diventata la “scienza dei fini”, cioè la politica, che da dominus, ne è diventata ancella.
Alla caduta del comunismo reale, forse il più grande fallimento politico sociale della storia, ci fu l’ammonimento di un politico illuminato, Lelio Basso, il quale affermava “stiamo attenti, che se è stato sconfitto il comunismo, non sono venute meno le ragioni sulle quale il comunismo era nato”.
E allora i segni del nostro tempo ci dicono che qualcosa dovrà accadere, tanto è grande ed iniqua la disuguaglianza, e quanto sia scandaloso e insopportabile il processo di crescente accumulazione della ricchezza.
O accade la profezia di Marx, per la quale il capitalismo finirà per divorare sè stesso per la sua avidità, o ci sarà un radicale cambio di rotta nelle politiche mondiali. O provvederà la rabbia dei poveri e degli sfruttati.
La rabbia dei poveri, del resto, è stata sempre la molla delle rivoluzioni, il cui esito è stato, sempre anch’esso, quello di spazzar via, anche in modo violento, speculatori, sfruttatori e parassiti.
E, oggi, viviamo in un mondo globale, dove la rabbia dei poveri potrebbe essere essa stessa addirittura globale.
Che lo scontro nord/sud del mondo stia dando qualche segnale in questo senso, non ci vuole molto a capirlo.
Negli ultimi incontri di Davos, dove ogni anno si danno convegno i tycoons del mondo, sono cominciati ad affiorare i primi segnali di consapevolezza di questa situazione, che non ha futuro. Anche per loro. E, forse, soprattutto per loro. I cicli vichiani…
Il capitalismo si è divorato l’economia, come si è divorato la società (“capitalismo senza società” era il titolo di un recente convegno alla Fondazione Feltrinelli), ma soprattutto si è divorato la politica e la cultura.
La politica è suddita, quella globale e quelle nazionali o “regionali”.
La cultura e i costumi, manipolati dagli interessi del business.
Basta considerare quanto il denaro sia, oggi, diventato l’idolo indiscusso delle nuove generazioni: non più strumento, ma fine, condizionando valori, lavoro, stili di vita. Come idolatria, è, spesso il rapporto effimero con le star di ogni genere, o, ancora molto peggio, siano idolatria quei nauseabondi revival mussoliniani e nazisti.
Quindi occhio agli idoli, che hanno in larga misura sostituito quegli ideali che le generazioni precedenti proclamavano, anche negli eccessi o nel disordine, delle contestazioni studentesche ed operaie degli anni sessanta e settanta, ma sempre ispirati a ideali di progresso della società.
Oggi qualche segnale c’è. Con l’ecologia, e, speriamo, con l’Europa. Ma ancora le disuguaglianze, per esempio, o il padronaggio smisurato e volgare della finanza, come il debito pubblico colossale nel mondo, non sembrano essere entrati nelle corde delle ultime generazioni, quelle che sono, invece, destinate a pagarne il prezzo più alto.
“Occupy Wall Street”, che aveva colto questo problema e che sembrava un fenomeno destinato a crescere, è durato il tempo di un fulmine. Eppure era sacrosanto.
Le stesse poche e rare contestazioni studentesche, non sembrano avere spessore ideale di quelle di una volta (una delle ultime occupazioni, mi pare che fosse addirittura per i banchi nuovi…).
A parte il “Friday for Future”, ovviamente, da non sottovalutare.
C’è bisogno quindi di ideali, non di idoli. Di valori morali e non di fanatismi irrazionali e reazionari. Di cultura e non di volgarità animalesca. E tornare a capire che i cicli vichiani sono sempre lì, pronti a tornare.
Agli adulti un sussulto di impegno nell’opera educativa dei giovani.
Ai giovani uno scatto di consapevolezza e di impegno, senza il quale hanno già perso il loro futuro: a loro esclusivo danno.
Benito Boschetto