«Ha chiesto di parlare l’onorevole Matteotti. Ne ha facoltà». Era il pomeriggio del 30 maggio di cento anni fa quando Giacomo Matteotti prese la parola per l’ultima volta dagli scranni della Camera per pronunciare quello che è ricordato come «il discorso della morte».
Con un coraggio che rasentò, anzi superò, la temerarietà, infatti, Matteotti denunciò gli abusi e le violenze con cui il fascismo aveva vinto le elezioni politiche del 6 aprile 1924, tenutesi con la famigerata Legge Acerbo.
Lo stenografico di quella seduta va letto e conosciuto da tutti, a partire dai giovani nelle scuole. Non ha nulla di polveroso, di lontano da noi. Le parole, gli argomenti basati su fatti precisi che il deputato socialista offrì all’aula raccontano come si consumò l’aggressione brutale e sistematica al processo elettorale di una democrazia liberale. I fatti narrati, anche quelli più minuti connessi agli ostacoli alla raccolta firme, alla presentazione delle liste, o quelli legati alla impossibilità dei rappresentanti di lista delle opposizioni di presenziare ai seggi, testimoniano l’esercizio della violenza politica diffusa nel Paese, che ebbe l’effetto di ridurre la volontà popolare a un guscio vuoto a uso e consumo del potere.
Lo spartito di lordure denunciato allora da Matteotti è oggi il presente di tanti Paesi e luoghi, anche a noi prossimi, dove il voto — né libero, né segreto — non è che il simulacro di quel che consideriamo democrazia.
Il deputato Matteotti, in un frastuono senza pari, scatenato dagli eletti fascisti, mille volte fu interrotto, ma mille volte riprese la sua arringa per chiedere il rinvio delle elezioni inficiate dalla violenza. Riuscì a terminare il discorso, ma la sua sorte era ormai segnata. Al termine dell’intervento, con una frase tristemente premonitrice e destinata a rimanere scolpita nella memoria collettiva, disse ai suoi compagni: «Ora preparate la mia orazione funebre». Esattamente dieci giorni dopo Matteotti fu assalito da cinque sicari che lo caricarono a forza su una macchina e lì venne sopraffatto e ucciso. Il corpo martoriato fu gettato in una fossa malamente ricoperta a Riano, vicino a Roma. I resti sarebbero stati ritrovati solo due mesi dopo, il 16 agosto.
Quest’anno sono cento anni. Cento anni dall’omicidio per mano fascista di Giacomo Matteotti.
Quell’omicidio poteva accadere nell’Italia che Mussolini teneva in pugno dall’ottobre del 1922. Poteva cioè accadere che un deputato del Regno, il segretario nazionale del Partito Socialista Unitario — il partito di Turati, Kuliscioff, Treves, Saragat — e dunque tra i principali esponenti dell’opposizione al regime, potesse essere aggredito, sequestrato, massacrato. Che potesse scomparire nel nulla, per essere fatto ritrovare cadavere nell’Italia assolata e distratta del Ferragosto.
La morte di Matteotti segna una svolta profonda nella storia dell’Italia del ’900. Non solo per l’efferatezza del delitto. Ce n’erano stati molti altri prima, ce ne sarebbero stati dopo. Da don Minzoni, a Giovanni Amendola, a Piero Gobetti, a Carlo e Nello Rosselli, ad Antonio Gramsci, l’Italia migliore fu denigrata, esiliata, perseguitata, aggredita, incarcerata, massacrata durante venti interminabili anni.
L’omicidio Matteotti fu qualcosa in più. Se le uccisioni di oppositori come don Minzoni o il deputato socialista Di Vagno potevano ancora essere considerate singoli episodi della «guerra civile» che il fascismo aveva scatenato a partire dal 1919-1920, uccidere Matteotti significava altro. Significava uccidere l’Italia liberale. Con quell’atto finiva anche l’Italia del Risorgimento, l’Italia dello Statuto, l’Italia della monarchia costituzionale.
Con l’omicidio Matteotti nasce il fascismo come regime integralmente totalitario. Il discorso di Mussolini del 3 gennaio 1925, in cui assumeva spavaldamente la responsabilità morale e politica — in verità penale — dell’omicidio Matteotti e di tutte le altre violenze, sancì precisamente un cambio di regime.
Matteotti era un socialista. Un uomo delle istituzioni, un promotore di giustizia, di libertà. Era partito dal basso, dal suo Polesine povero e vessato; era stato sindaco e consigliere provinciale, aveva organizzato e protetto i contadini della sua terra, sfruttati e affamati da quegli agrari che furono i primi foraggiatori della «guerra civile» fascista. Matteotti era il primo, il più coraggioso, il più intransigente dei nemici del fascismo.
Questo è l’uomo, il parlamentare, l’oppositore che noi oggi, cent’anni dopo, ricordiamo e onoriamo. Con lui, oggi, sosteniamo tutti gli oppositori che «a mani nude», con la forza dei fatti e con le armi delle parole, non tacciono, si oppongono, esistono e resistono dentro e fuori le istituzioni, fino a offrire i propri corpi e la loro libertà al potere che li desidera morti. Da ultimo, la vita e la morte di Aleksej Naval’nyj tutti li richiama.
Oggi una solenne cerimonia presso la Camera dei deputati, alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, renderà i dovuti onori alla figura e all’opera di Giacomo Matteotti.
Anche noi vogliamo qui ricordarlo. Ricordare un uomo che riassumeva e fondeva i valori del socialismo, della democrazia, della giustizia, dell’eguaglianza, della solidarietà, della difesa della dignità del Parlamento. Sarebbe divenuto uno dei padri della nostra Repubblica. Un modello per l’Italia che, dal suo antifascismo e dal suo coraggio civile e personale, trasse forza e fiducia per rinascere finalmente alla Democrazia e alla Libertà.
Senatrici a vita Elena Cattaneo e Liliana Segre
(Corriere della Sera 30 maggio 2024)