Il 1 ° dicembre 2019 Ursula Von Der Leyen viene eletta Presidente della Commissione Europea. Tra i suoi primi atti, vi è la presentazione del Green Deal Europeo, un indirizzo politico volto a rendere l’Europa il primo continente “Zero Carbon” entro il 2050, stimolando l’economia, migliorando la salute e la qualità della vita delle persone, prendendosi cura della natura e senza lasciare nessuno indietro. Ciò significa eliminare l’emissione netta di Co2 entro il 2050.
Specificità
Il Green Deal europeo sarà, in termini specifici, una “strategia” che prevede interventi in tutti i settori economici, dalla produzione di energia ai trasporti, passando per il riscaldamento / raffrescamento, i processi produttivi nelle industrie pesanti e così via. Ciò richiederà l’applicazione di nuove leggi e investimenti nei prossimi trent’anni. L’obiettivo chiave è limitare l’aumento del riscaldamento globale che, secondo le proiezioni del Gruppo intergovernativo di esperti sui cambiamenti climatici (IPCC) delle Nazioni Unite, deve rimanere al di sotto di 1,5° C rispetto al periodo preindustriale, in modo da non causare gravi danni alla terra e quindi alla specie umana. In linea di principio, è difficile essere contrari agli obiettivi stabiliti dal Green Deal europeo; Angela Mauro, su Huffington Post, lo ha addirittura definito un “atto pioneristico al pari dell’uomo sulla luna” [1].
Ma dopo tutto l’entusiasmo, è altrettanto difficile non riconoscere le difficoltà insite nel progetto. Anzitutto economiche; il piano dell’Unione Europea, approvato a gennaio 2020, prevede di mobilitare almeno mille miliardi di euro di investimenti sostenibili nell’arco dei prossimi dieci anni. Ciò non vuol dire, quindi, che l’Unione spenderà in prima persona l’intera cifra. Dal bilancio dell’Ue per il settennato 2021-2027 si stima l’arrivo di circa 503 miliardi di dollari. La Commissione, infatti ha proposto di destinare il 25% del proprio bilancio (meno di 40 miliardi di euro l’anno) a una serie di programmi che in un modo o nell’altro risultano funzionali al green deal europeo (Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale, Fondo europeo agricolo di orientamento e di garanzia, Fondo europeo per lo sviluppo regionale, Fondi strutturali, Horizon Europe e fondi Life)
Questi numeri impongono da subito un’analisi concreta della realtà con cui il Green Deal rischia di scontrarsi, per evitare che si concluda in un nulla di fatto che, come spiega William Nordhaus nel suo “Requiem for Kyoto: An Economic Analysis of the Kyoto Protocol”, ha caratterizzato il Protocollo di Kyoto: “la strategia alla base del Protocollo di Kyoto non ha alcun fondamento nella politica economica e ambientale. L’approccio di congelamento delle emissioni a un dato livello per un gruppo di paesi non è correlato a un obiettivo particolare per concentrazioni, temperatura o danni. Né ha alcuna relazione con una strategia orientata all’economia che bilancerebbe i costi e i benefici della riduzione dei gas a effetto serra” [2].
In sintesi, dice Nordhaus, gli enormi costi legati al Protocollo di Kyoto non hanno avuto neanche lontanamente gli esiti sperati sulle emissioni globali, proprio perché poco coerenti con la realtà in corso e perché le azioni intraprese avevano poco o nulla a che vedere con una riduzione reale delle emissioni.
Costi-Benefici
La proposta è quella di analizzare anzitutto i benefici globali in termini di emissioni che potrebbero provenire dalla realizzazione della decarbonizzazione, e qui si identifica il primo limite del Green Deal: l’Europa contribuisce per meno di 4 miliardi di tonnellate alle emissioni globali. Ciò costituisce solo il 9/10% delle emissioni globali in percentuale. Eppure, negli anni, l’Europa ha raggiunto una consistente riduzione delle emissioni. Se confrontiamo, infatti, l’anno 2000 con il 2019, il calo delle emissioni è lampante: da 4 miliardi di tonnellate nel 2000, si è passati a 3,3 nel 2019. [3].
La domanda da porsi, anche per comprendere le dinamiche future, è quali sono le ragioni da attribuire a questo declino. Anche se non sono disponibili analisi complete, potrebbero essere identificate quattro ragioni principali:
1) le politiche climatiche definite a livello europeo.
2) La penetrazione delle rinnovabili nel settore dell’energia elettrica.
3) Il cambiamento del mix di produzione da settori ad alto tenore di carbonio (industria) a settori a basse emissioni di carbonio.
4) Il miglioramento dell’efficienza nei settori di utilizzo.
Una quinta ragione ipotetica, identificata da Alberto Clò, va ricercata nella bassa crescita economica, la riduzione della base manifatturiera e il conseguente crollo delle attività economiche in diversi paesi.
Il legame risulta chiaro prendendo di esempio l’Italia, che ha visto una riduzione delle emissioni di circa un quarto dal 2007, con l’occupazione nel manifatturiero ridotta di 650.000 unità. [4] A questi fattori che hanno contribuito alla riduzione delle emissioni si contrappone uno generalmente ignorato: le emissioni integrate nei prodotti importati. Questo consiste nel trasferimento delle attività manifatturiere in paesi con limiti di emissione inferiori ma anche con maggiore intensità di carbonio per unità di produzione; il fenomeno prende il nome di “Carbon Leakage”. Se è vero, quindi, che l’Unione Europea è stata in grado di raggiungere l’obiettivo di riduzione del 20% fissato per il 2020 in anticipo, è altrettanto vero che se si tenesse conto delle emissioni importate, la riduzione sarebbe (e di molto) inferiore.
Come si intende realizzare la decarbonizzazione?
Il Just Transition Fund, il fondo destinato a compensare gli effetti economici negativi che il Green Deal potrebbe causare, ha presentato da subito diverse contraddizioni. Le prime contrarietà, infatti, sono state raccolte dall’articolo 5 del regolamento che vieta l’utilizzo del fondo per qualsiasi forma di sostegno a progetti relativi ai combustibili fossili (soltanto recentemente si è ammesso il Gas Naturale come energia di transizione) nonché per la costruzione e lo smantellamento di centrali nucleari. [5]
A questo punto la domanda sorge spontanea: come si intende realizzare la decarbonizzazione? Gli strumenti, i tempi e soprattutto le tecnologie dedicate all’obiettivo bàlzano in primo piano, “perché la fattibilità del progetto dipende dalla sua sostenibilità economica”, dichiara Giuseppe Zollino, Docente di Tecnica ed Economia dell’Energia, Dipartimento di Ingegneria Industriale presso l’Università degli Studi di Padova. La preoccupazione che il risultato del Green Deal possa registrare un fallimento così come gli altri accordi mondiali sull’inquinamento è aggravata dal fatto che, secondo molti analisti, il Green Deal, così come si presenta, non sembra poi così nuovo. Nel 2000, infatti, il Programma europeo per il cambiamento climatico ha affermato che “l’Unione europea è impegnata da tempo nella lotta al cambiamento climatico a livello internazionale” e che “sente la responsabilità di essere un esempio con politiche e passi chiari”, presupponendo quindi una sorta di “effetto imitazione” che l’Unione Europea avrebbe potuto innescare nel resto del mondo.
Il Green Deal Europeo presenta la stessa premessa: decarbonizzare l’Europa per spingere gli altri Paesi a imitarne il modello. Ma, se analizziamo i numeri dal 2000 al 2018, nel 2000 furono emesse 23 miliardi di tonnellate di CO2 nel mondo, mentre nel 2019, più di 33; [6] considerando la riduzione delle emissioni da parte dell’Unione Europea, bisogna quindi convenire sul fatto che l’aumento di emissioni da parte del resto del mondo successivo al Programma europeo per il cambiamento climatico sia di quasi 18 volte maggiore rispetto alla riduzione conseguita dall’UE.
L’idea, quindi, che l’Unione Europea possa scatenare una sorta di “effetto imitazione” nei confronti degli altri paesi, soprattutto sulle economie emergenti, non trova alcun riscontro con la realtà. Questo punto assume grande importanza se si considera un elemento: la CO2 è globale.
Cina
La Cina contribuisce per circa il 30% alle emissioni globali e di queste emissioni la quota maggiore proviene dal carbone. Se consideriamo che, prima della pandemia Covid-19, la Cina intendeva aumentare la propria capacità energetica di 148 GW, secondo i dati forniti dall’ultimo report dell’organizzazione no profit Global Energy Monitor, [7] immaginare il colosso cinese Carbon Free è piuttosto difficile. Nel periodo tra gennaio 2018 e giugno 2019, la capacità produttiva delle centrali a carbone nel mondo – Cina esclusa – è diminuita per la prima volta dagli anni ’80, registrando -8,1 gigawatt (GW). Allo stesso tempo, tuttavia, la capacità totale cinese nel settore è aumentata notevolmente: +42,9 GW. Ciò significa che, nonostante le scelte strategiche a favore della decarbonizzazione effettuate sul pianeta, la capacità globale complessiva delle centrali a carbone è aumentata di quasi 35 GW nell’arco di 18 mesi.
Inoltre, secondo BloombergNEF, gli investimenti della Cina nelle energie rinnovabili nel 2019 sono diminuiti dell’8%. Pertanto, con 83,4 miliardi di dollari di investimenti nel settore delle rinnovabili, la Cina nel 2019 ha avuto la peggiore performance dal 2013. Il settore più in diminuzione in termini di investimenti è stato l’energia solare, precisamente del 33%, meno di un terzo del totale del 2017. [8] L’ultima speranza di coloro che hanno identificato la Cina come leader in questa battaglia sulle emissioni è arrivata dal blocco causato dalla pandemia Covid-19. Nei mesi che hanno interrotto le attività produttive cinesi, come afferma il Centro finlandese per la ricerca sull’energia e l’aria pulita (Crea), nello stesso periodo ma un anno fa la Cina ha rilasciato circa 400 milioni di tonnellate di CO2. La quarantena ha ridotto le emissioni cinesi di circa il 17%. [9] I ricercatori del Crea, però, avevano già avvertito, subito dopo la pubblicazione del loro studio, che il calo delle emissioni sarebbe stato probabilmente temporaneo, viste le azioni intraprese da Pechino per rilanciare le attività industriali. “Come era già accaduto dopo la crisi finanziaria globale e la recessione economica interna nel Paese del 2015“, conclude il rapporto del centro studi finlandese, “il fattore chiave che determinerà l’entità di questo impatto è la velocità con cui le cose torneranno alla normalità”. [10] Purtroppo, le previsioni di Crea non hanno tardato a realizzarsi. A maggio, infatti, le emissioni di CO2 in Cina sono tornate ai livelli pre-Covid, registrando un aumento del 4-5% su base annua: [11] è chiaro che, senza il contributo della Cina all’obiettivo di zero emissioni (e il colosso cinese sembra ancora lontano da questo), l’impatto climatico sarà pressoché nullo.
Conclusioni
Uno dei motivi, forse il più importante, che rende così difficile la lotta al riscaldamento globale è il fatto che dalla prima Conferenza sul clima di Berlino del 1995, ma anche nell’infinita letteratura in materia, sostanzialmente non si è mai tenuto conto della realtà su cui le politiche dovrebbero intervenire. Il paradosso si verifica soprattutto nel campo dell’energia, dove c’è un costante distacco tra la realtà “virtuale” dipinta di retorica ambientalista e la realtà “reale”. A riprova di ciò c’è il fatto che l’Accordo di Parigi prevedeva una riduzione delle emissioni negli stessi anni della Shale Revolution, in grado di aumentare l’approvvigionamento energetico americano molto più di qualsiasi altra fonte, trasformando gli Stati Uniti in uno dei maggiori esportatori di Gas al mondo.
Il copione delle numerose conferenze sul clima è rimasto lo stesso: prendere atto degli aggiornamenti scientifici dell’IPCC (concentrazione di CO2, andamento delle emissioni, aumento della temperatura) e dopo di ché, negoziare sulla politica riguardante i tempi di riduzione delle emissioni. Ma il tema della fattibilità di quanto proposto è sempre stato evitato, continuando a ribadire le stesse azioni indipendentemente dal fatto che il contesto esterno sia cambiato, a causa delle crisi economiche o dell’aumento delle tensioni internazionali. Ciò ha fatto sì che l’accordo di Parigi si trovasse in un vuoto di attuazione, lo stesso in cui rischia di finire il Green Deal.
La condizione più trascurata dall’Accordo di Parigi e dal Green Deal europeo è che ogni intervento utile alla riduzione delle emissioni ha un evidente costo monetario. Anche aderendo all’ipotesi che le risorse monetarie siano sostenibili in un quadro di compatibilità macroeconomica e giustificabili in un’ottica globale nel confronto tra costi e benefici, resta il discorso su “chi paga veramente”. In altre parole, non è sufficiente che ciò che viene speso abbia piena giustificazione economica o anche una base etica se non è in grado di garantire la redditività per chi impiega il denaro.
La sostenibilità economica, in sostanza, non è una condizione sufficiente, ma necessaria per gli investimenti necessari per realizzare la transizione. Su questo punto sorgono una serie di domande: da quali soggetti – pubblici o privati – possono essere realizzati e finanziati i progetti di transizione? Questi progetti sono compatibili con altre esigenze? come viene garantita la sua redditività? Infine, come ne viene certificata l’efficacia? Queste domande assumono importanza soprattutto se si tiene conto del fatto che le emissioni continuano a crescere, esponenzialmente, nei paesi emergenti, mentre tendono a rimanere stabili nei paesi avanzati, che beneficiano di elevati standard di vita acquisiti grazie all’utilizzo di fonti fossili.
La maggior parte degli investimenti, anche al fine di massimizzare la propria efficacia, dovrebbe quindi orientarsi verso paesi emergenti dove i mercati finanziari sono però meno attrezzati, e presentano maggiori rischi politici e regolamentari. Gli investitori privati potrebbero quindi non avere una motivazione sufficiente per effettuare investimenti così complessi in una situazione instabile. Chi paga allora? Per quanto riguarda il Green Deal europeo, purtroppo i primi passi suggeriscono che anche questo stia scivolando verso il vuoto attuativo, trasformandosi in un mezzo ideologico ancor più che pratico.
La domanda, secondo molti, non dovrebbe essere in che misura o in quale arco di tempo sia fattibile una transizione energetica, ma piuttosto come dovrebbe essere governata, per garantire che il nuovo, non ancora maturo, non prenda il posto del vecchio in un momento sbagliato, senza quindi lasciare tutto al gioco dei mercati o al connubio di politiche nazionali distaccate e scoordinate. In uno scenario simile, è ancora più chiaro che fino a quando le tecnologie non avranno raggiunto un livello di maturità tale da superare, ad esempio, i limiti tecnici delle nuove rinnovabili (intermittenza, bassa densità energetica, alti costi…), vecchio e nuovo devono, almeno, coesistere.
La Dead Line al 2050, per questo motivo, appare incerta e poco pratica. Per un periodo di tempo imprevedibile, le fonti fossili e rinnovabili dovranno essere gestite in un quadro di integrazione; metterle in antitesi è controproducente prima ancora che sbagliato. Le politiche di decarbonizzazione procederanno a ritmi diversi nelle diverse aree e settori delle economie. Una parte delle emissioni sarà inevitabile laddove gli idrocarburi non possono essere sostituiti come nella produzione chimica, nel trasporto aereo, nella produzione pesante. CCS (Carbon Capture and Storage) o CCUS (Carbon dioxide Capture & Utilization Storage) saranno in grado di catturare una quantità significativa di CO2 in un lasso di tempo ad oggi, comunque, imprevedibile, e che richiederà un impegno adeguato nella ricerca e sviluppo. Più penetrano le nuove tecnologie a basse emissioni di carbonio, più diminuirà la domanda di fonti tradizionali.
Allo stesso modo, però, ignorare il ruolo che ancora dovranno svolgere petrolio e metano aumenta i rischi di instabilità e sicurezza dei mercati, se si considerano anche gli equilibri geopolitici alla base del mercato Oil & Gas. Da ciò emerge una posizione scomoda per le industrie fossili, che si colloca tra la possibilità che le politiche climatiche causino una progressiva emarginazione e la necessità, d’altra parte, di queste industrie di adottare oggi scelte strategiche su cui il futuro dei mercati energetici, e dell’economia mondiale, dipenderà. Parigi e il Green Deal hanno indicato all’industria dei fossili che la comunità internazionale non li considera più essenziali per il futuro dell’energia.
Il sostegno che hanno ricevuto finora dagli stati è destinato a esaurirsi se non a cambiare segno con crescenti barriere legali. Il rischio è che l’industria del petrolio e del metano, di fronte all’incertezza sul suo futuro causata da politiche climatiche aggressive, decida di ridurre i propri investimenti, creando le condizioni per un forte squilibrio di mercato. Il passaggio a nuove fonti energetiche non solleva il mondo dalla responsabilità di garantire in futuro la piena copertura del fabbisogno energetico. Da qui la necessità di calibrare attentamente le politiche climatiche e di governare la transizione energetica. La tesi sostenuta finora, quindi, fa capire che la transizione energetica è un percorso complesso, lungo, costoso che difficilmente potrà essere portato a termine in tempi compatibili con gli obiettivi fissati dal Green Deal.
Infatti, la decarbonizzazione richiederà la sostituzione dell’intero capitale sociale esistente sia dal lato dell’offerta che della domanda di energia. Affermare il contrario è una delle cause dei fallimenti dei precedenti accordi sul clima. Dire come stanno le cose, superare la visione politicamente corretta e sostituire l’analisi dei fatti alle emozioni è un prerequisito necessario per acquisire il consenso necessario nell’opinione pubblica su cui cadranno i costi della transizione energetica.
Carlo Minopoli
(pubblicato il 14 aprile 2021 su L’Astrolabio, periodico di informazione sull’energia, l’ambiente e le risorse, Newsletter degli Amici della Terra)
NOTE
[1] Mauro, A. (2019). Il Green new deal come l’uomo sulla luna. [online] L’HuffPost: https://www.huffingtonpost.it/entry/il-green-new-deal-come-luomo-sulla-l…
[2] William D. Nordhaus & Joseph G. Boyer, 1998. “Requiem for Kyoto: An Economic Analysis of the Kyoto Protocol,” Cowles Foundation Discussion Papers 1201, Cowles Foundation for Research in Economics, Yale University
[3] BP. “Statistical Review of World Energy | Home | BP.” BP Global, 2019, www.bp.com/en/global/corporate/energy-economics/statistical-review-of-world-energy.html.
[4] Confimprenditori. Manifattura, mito e realtà del Made in Italy, 2020.
[5] Art. 5 “Exclusion from the scope of the support” – Just Transition Fund Regulation (n.d.). EUR-Lex – 52020PC0022 – EN – EUR-Lex. [online] eur-lex.europa.eu.
https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=CELEX:52020PC0022
[6] BP. “Statistical Review of World Energy | Home | BP.” BP Global, 2019, www.bp.com/en/global/corporate/energy-economics/statistical-review-of-world-energy.html.
[7] Global Energy Monitor (n.d.). End Coal | Out of Step: China Is Driving the Continued Growth of the Global Coal Fleet. [online] End Coal. https://endcoal.org/global-coal-plant-tracker/reports/out-of-step/
[8] Grasso Macola, I. (2020). China’s renewable investments fall as US’s rise: BloombergNEF report. [online] Power Technology | Energy News and Market Analysis.
https://www.power-technology.com/comment/china-26bn-uhv-grids/
[9] Myllyvirta, Lauri. “Analysis: Coronavirus Has Temporarily Reduced China’s CO2 Emissions by a Quarter.” Carbon Brief, 19 Feb. 2020, www.carbonbrief.org/analysis-coronavirus-has-temporarily-reduced-chinas-….
[10] Ibidem
[11] Bellantone, Rocco. “Coronavirus, in Cina Inquinamento Atmosferico Tornato Ai Livelli Pre-Pandemia.” La Nuova Ecologia, 4 June 2020, www.lanuovaecologia.it/cina-coronavirus-inquinamento-atmosferico-aumento/.
(mercoledì 21 aprile 2021)