Ho seguito con apprensione la vicenda del Piccolo Teatro. Non entro nel merito della valutazione dei meriti e delle competenze culturali dei candidati: trovo sconcertante che, dopo che un candidato sia stato dirottato dal Ministero al Regio di Torino a fare il commissario, si sia andati a ripescare un candidato che aveva declinato la propria disponibilità. Per quale motivo? Io non l’ho capito: mi è sembrata una scelta per non darla vinta alla Regione, che si era opposta al candidato del Ministero. Rimanevano in lizza tre candidati tra cui scegliere: sono giudicati scarsi? quello dell’Emilia Romagna è un genio del teatro con una esperienza decennale alle spalle? Quali sono le valutazioni? Non è dato sapere.
Non mi piace l’attuale giunta regionale, ma confesso che mi irritano molto le prepotenze romane, quel generone romano che ha tentato anche alla Scala di imporre il suo candidato. I soldi e i riconoscimenti, che il Piccolo ha avuto dal Ministero, non sono concessioni generose del sovrano, ma sono atti dovuti (tardivi) per la storia, il prestigio e l’attività del Piccolo Teatro da Paolo Grassi a Sergio Escobar. Il Ministero non ha titoli maggiori e diritti superiori per imporre scelte ad una istituzione profondamente milanese, quindi nazionale e internazionale. Non c’entra nulla Gramsci, citato dall’assessore Galli (tanti, tanti anni fa feci una tesi su “Il concetto di egemonia da Marx a Gramsci”): l’esercizio della egemonia in Gramsci si esprime nella capacità politica e culturale di guidare, di indicare il percorso, di raccogliere consensi, non nella forza o nelle prove di forza.
Le ultime fasi della vicenda aggiungono sconcerto in una vicenda deleteria per il presente e per il futuro del Piccolo. La politica è certo scontro, ma è anche capacità di accordo, di sintesi, di compromesso tra posizioni diverse, tanto più nella conduzione di un ente culturale. Giustamente, Schiavi ( sul “Corriere della Sera”) aveva invitato il Comune e la Regione a chiudersi in una stanza, per un giorno, e trovare una soluzione comune.
Invece, si aggiungono due posti nel Consiglio di amministrazione per avere la maggioranza e far passare il proprio candidato contro la volontà di uno dei soci fondatori. Cambiare le regole in corso d’opera è una prova di autoritarismo e di arroganza di potere. Se scambiassimo le posizioni, e fosse il centrodestra ad usare questa forzatura, qualcuno parlerebbe di banditismo, o addirittura di “fascismo”.
Anche nel calcio, si possono cambiare cinque giocatori, nel corso della partita, ma non se ne possono aggiungere due per vincere. E sarebbe anche di cattivo gusto, aggiungere giocatori che hanno già giocato o già sostituiti, o che hanno interessi ad avere finanziamenti del Comune o del Ministero. Così come prestarsi a tale operazione, per chiunque, mi sembrerebbe poco dignitoso.
Oggi viviamo una pagina brutta non solo per il Piccolo, ma anche per la politica milanese.
“La colpa, caro Bruto, non è nelle nostre stelle, ma in noi stessi.” “Buona notte, e buona fortuna”.
Luigi Corbani
(1 ottobre 2020)
Condivido l’analisi di Luigi Corbani ,sulla vicenda Piccolo Teatro, e la sua amarezza nel vedere mortificata dalla politica arrogante una Istituzione da sempre fiore all’occhiello di Milano, di tutto il Paese e riconosciuta in tutto il mondo.
Cosa stiamo diventando?
Il Piccolo Teatro non si merita questo né se lo meritano i suoi fondatori, i suoi lavoratori e artisti.
L’arroganza è sempre un brutto segno
di potere cafone. Possibile che non si possa quasi mai seguire vie di correttezza non solo formale ma sostanziale. Gli incontri preliminari per decidere di nascosto, il non tenere in considerazione la cultura necessaria, è segno di prepotenza e cafoneria di cui potremmo veramente fare a meno.