È scomparso un grande giornalista, una bella persona, un compagno, si sarebbe detto una volta. E oggi, in cui si parla di Sergio Zavoli e anche del Piccolo Teatro, mi è venuto in mente uno suo scritto a ricordo di Paolo Grassi per un concerto che laVerdi, con il sostegno finanziario di un grande amico di Paolo Grassi, Giorgio Fantoni, dedicò nel febbraio 1996, a quindici anni dalla scomparsa, al mitico fondatore del primo teatro pubblico italiano. Vale la pena di rileggere insieme questo scritto, come testimonianza di un’epoca e di uno scrittore raffinato, ma anche per la profondità delle sue osservazioni. Ecco lo scritto di Sergio Zavoli. (L.C.)
“Paolo Grassi sarà ricordato per la traccia lasciata nella cultura non solo nazionale come uomo di spettacolo in un ruolo inedito, che egli stesso si era disegnato su misura, dopo aver messo da parte quello di regista, critico drammatico, e impresario, scelse di diventare – cito le sue parole – “operatore culturale”, figura nuova per l’Italia, con il proposito di “fare teatro per cambiarlo”. Ciò ha voluto dire soprattutto organizzarlo, ma con una forte carica immaginativa, e un’intelligenza nutrita di cultura generale e specifica a far da detonatore. L’invenzione che lo ha reso famoso, dividendone il merito con Giorgio Strehler e Nina Vinchi, fu quella del Teatro della città di Milano che di “piccolo”, come qualche anno dopo dirà Armand Salacrou, avrebbe avuto soltanto il nome. Prese corpo allora – era il 1947, e si vedevano ovunque le rovine della guerra – l’idea di un teatro d’arte a gestione pubblica, in questo caso municipale, verso cui, come su una stella fissa, si orienterà il suo molteplice, inesauribile dire e fare lungo i venticinque anni di direzione del Piccolo; ventuno con Strehler, quattro da solo, e poi, passando da un palcoscenico divenuto prestigioso e illustre a un altro più grande e famoso, la Scala, di cui fu sovrintendente dal 1972 al 1977, fino all’ultimo, più grande ancora, con l’elettronico, con la presidenza della RAI.
Una strada tutta percorsa nel nome di un servizio dovuto alla comunità e fondata sulla fiducia, vigorosa a quel tempo, nella qualità civile della politica, cioè nell’agire democratico e trasparente dei pubblici poteri: a cominciare da quelli locali i più vicini al cittadino. Oggi quell’impegno può apparire sin troppo candido, fino a sconfinare nell’utopia, dovendo fare i conti, in pratica, con la natura sempre incerta dell’uomo, sia esso sindaco, assessore, consigliere, manager, assai più che col funzionamento, più prevedibile e manifesto, delle istituzioni.
Anche allora non mancarono traversie, dissensi e persino scontri, questi ultimi non sempre, per dir così, ad armi cortesi. Ma è certo che, pur tra difficoltà anch’esse memorabili, il Piccolo mise in scena, una stagione dopo l’altra, spettacoli di cui ancora si parla. Quella catena di successi, tutt’altro che effimeri se hanno lasciato valori alti e fecondi, sino a far scuola, si deve a due uomini diversissimi e tuttavia tra loro complementari, Grassi e Strehler, due poli tra i quali non di rado scoccavano scintille rischiose e insieme provvidenziali.
Il primo agiva dietro le quinte, l’altro in palcoscenico: una divisione delle parti su cui proprio Strehler ha scritto una pagina rivelatrice. “Tu – dice rivolgendosi a Grassi – sei innanzitutto un uomo di teatro, un uomo di palco e di piazza. E dopo, o insieme, sei uomo di cultura, uno che ha cercato, e cerca sempre, e sempre cercherà, perché non può farne a meno, di costruire un teatro. Un teatro a immagine del mondo, a immagine di una società che ancora non c’è (…). Ma hai anche qualcosa che l’uomo sulla scena sembra non avere: una pazienza, una tenacia e una capacità straordinarie per fare quello che occorre intorno al teatro (…). Potevi insomma fare teatro dentro e fuori. Invece hai cercato di uccidere dentro di te, senza riuscirvi interamente, né lo potevi, il lato creativo dello spettacolo per essere più utile in modo diverso, più diretto, più nell’ombra, in quinta. Una scelta necessaria, lucida e sofferta: ‘c’era bisogno di tutte le tue forze, in un solo punto. All’altro dovevo stare io’. Ma la ferita in te è rimasta aperta. Posso parlarne proprio io che ho dovuto compiere la stessa cosa… cercando di uccidere l’attore che sono (…), perché anch’io ho ucciso qualcosa del teatro per amore del teatro“.
La bella lettera di Strehler, scritta nel 1977 , conclude un volume dedicato alla carriera artistica di Paolo Grassi da Emilio Pozzi, che di lui fu collaboratore e amico devoto. Il libro che raccoglie, come tessere di un mosaico, cronache, giudizi, confessioni, sfoghi, dà conto dell’affermarsi del Piccolo dalla prima rappresentazione, L’albergo dei Poveri di Gorkij, con l’orchestra della Scala (l’idea è di Grassi) che suona in platea, come segno d’augurio , “Eine kleine Nachtmusik” , la celebre serenata di Mozart, alle diverse edizioni dell’Arlecchino, divenuto l’emblema del Piccolo, alle recite goldoniane , a Brecht con l’ Opera da tre soldi, Vita di Galileo, Santa Giovanna dei Macelli, al Processo a Gesù di Fabbri e all’Istruttoria di Weiss; ma soprattutto aiuta a comprendere quale sia stata, in questa sequela trionfale, la parte di Paolo Grassi: talentscout, Pigmalione, impresario di meraviglie, cercatore d’oro, ossia di danaro fresco quando i contributi tardavano, duttile artefice di mediazioni senza che mai cedesse di un millimetro su una questione di principio, polemista agguerrito e temibile se doveva far valere le ragioni del Teatro e difendere, rispetto a chiunque, la sua autonomia, straordinario animatore, capace di impuntature e di piccole tirannie, ma anche di attenzioni appropriate, a ciascuno la sua, senza distinzioni e dimenticanze, e infine elargitore cli riconoscimenti generosi, e persino aggraziati, quando alle ragioni della testa univa, o preferiva, quelle dell’animo.
Tutto ciò si aggiungeva al lavoro principale, e mai interrotto, di ricerca sui programmi, impostazione del cartellone, messa a punto delle recite. Non è questa la circostanza per soffermarci, con l’ampiezza che l’argomento meriterebbe, sulla vicenda del Piccolo e del suo apporto alla cultura di questo mezzo secolo; qui si vuole ricordare l’uomo che di quella vicenda fu un iniziatore e un protagonista, e l’occasione è un concerto a lui dedicato. Uno scritto come questo, “in memoria”, è dunque comprensibile che non vada oltre il semplice profilo, tracciato su sfondi anch’essi solo accennati.
Paolo Grassi, che aveva un culto “foscoliano”, come amava dire dei morti e di ciò che di loro resta ai vivi, non avrebbe avuto, credo, obiezioni. Gli bastava poco per non rompere con il passato: le locandine degli spettacoli con cui tappezzava ogni parete dei suoi uffici, una foto di Matteotti, una lettera di Gramsci dal carcere di Milano, la maschera di Pulcinella disegnata da Amleto Sartori, offerta a Eduardo quando aprì a Napoli il San Ferdinando, i ritratti dei maestri scomparsi: Bertold Brecht e Silvio D’ Amico. Quei cimeli – gli ex-voto, come diceva lui – se li portava sempre dietro; li vidi al Piccolo, li rividi tali e quali nel suo studio al settimo piano di viale Mazzini. Quando cambiava ufficio aggiungeva sempre qualcosa di nuovo, un oggetto moderno, dal design raffinato: una lampada, un calendario, una cornice, un vaso di cristallo per le rose, purpuree, che gli venivano rinnovate ogni mattina. Era il suo modo di dire che si disponeva ancora una volta a ricominciare, senza strappi con ciò che lasciava alle spalle.
Alla Scala, dal ’72 al ’77, aveva avuto cinque anni difficili: impegnato a difendere il primato dell’istituzione e l’unicità del suo ruolo, che non accettava venisse in alcun modo toccato. Tra mille ostacoli, accresciuti dall’ondata contestatrice di un decennio confuso e tempestoso, era riuscito ad abbattere più d’una barriera per aprire la Scala a un pubblico nuovo e portarla ai successi clamorosi di Monaco, Vienna, Londra, Mosca, Washington, New York. L’aveva lasciata con dolore: non sapeva risolversi ad abbandonare, dopo quarant’anni, il palcoscenico vero, il pubblico vero, in platea, nei palchi, nel loggione, che applaude e dissente.
Il teatro elettronico, con milioni di spettatori invisibili, non era la stessa cosa, ma l’accettò per non sottrarsi alla responsabilità di guidare il servizio pubblico radiotelevisivo, lui che aveva teorizzato, sostenuto e in parte realizzato, l’idea del teatro a gestione pubblica. Fu il suo ultimo incarico. Svolto con onore com’era da aspettarsi, e la consueta indocilità verso il potere politico quando gli pareva che pretendesse un’indebita obbedienza.
Gli succedetti nella carica e in ciò che volle dirmi al momento del congedo non trovai ombra di amarezza; semmai, più evidenti che in passato, i tratti di un carattere severo, scabro, intransigente. E di una nobiltà, ormai, fuori moda. Il giorno in cui mi insediai venne nel mio ufficio sventolando una carta. “Qui dentro – disse – c’è l’origine di tante amarezze. Sta attento”. Era un documento sull’attribuzione dei poteri.
Aveva della vita una visione non arcigna, ma seria, grave. Si deve non soltanto al suo talento, alla ricchezza della sua cultura e alla profondità del suo animo se ha potuto fare ciò che ha fatto, e che continuerà a durare nella sua lezione. Rara, in un’epoca grande e dissipatrice, votata ad una modernità non di rado alta e senz’anima. Egli agì nel pieno di quel tempo, e sul crinale fu tra i primi ad accorgersi di ciò che veniva perdendosi. Se n’è andato all’ora non dello struggimento, ma della riflessione; forse della malinconia, la nostra stessa d’oggi nel ricordarlo.”
Sergio Zavoli
Testo di rara intensità e pieno di grande informata cultura. Mi sa che persone capaci di tanto non c’è siano più
Un uomo integerrimo. Che amava il suo sud e nel quale si figurava ogni giorno. Per me un padre riservato negli affetti. Un ricordo profondo che si rinnova ogni giorno nella mia mente e nel mio cuore.