Confesso che in un primo momento l’avevo presa come la gag di Totò che vende la Fontana di Trevi: ovvero una barzelletta. Ma poi ho letto dichiarazioni, interviste e allora ho pensato ai sindacati che qualche anno fa alla Scala manifestavano contro “I mercanti nel tempio”. Altri tempi!
Non c’era mai arrivato nessuno a pensare che la privatizzazione (fasulla) significasse anche vendere il posto del Consiglio di Amministrazione a uno Stato straniero.
Sì, perché al di là della forma (all’italiana, sembra una cosa, ma in realtà è un’altra) di “fondazione di diritto privato”, il Teatro alla Scala a tutti gli effetti è un ente pubblico, controllato dalla Corte dei Conti, che riferisce al Parlamento italiano. Ora, che qualcuno pensi di inserire uno stato straniero (comunque camuffato) in un ente culturale pubblico ha dell’inverosimile: la prossima volta metteranno anche nella Giunta municipale di Milano un rappresentante di uno stato straniero? Forse: basta che sganci un po’ di soldi.
E bisogna prenderli, questi soldi, dice l’astuto ideatore di questa malsana idea: altrimenti vanno in Francia.
Già a noi sembra una triste vicenda di mercimonio, e non mi sembra il caso di fare la figura da mendicanti, da poveri accattoni.
Fosse una cifra da lasciare a bocca aperta, sarebbe comunque inaccettabile ma meno umiliante, meno venale e triste. E già parlarne mi sembra una cosa avvilente, mortificante, data la natura e il marchio del Teatro alla Scala.
Noi svendiamo la presenza alla Scala per che cosa? Tre milioni (dicasi tre) all’anno per cinque anni ! Ma mi faccia il piacere !!!, direbbe Totò.
Ora lo Stato italiano ha dato alla Scala nel 2018 un contributo di 28,8 milioni (nel 2016 erano quasi 32 milioni) e ha due rappresentanti. Il Comune di Milano ha due rappresentanti, ma oltre al contributo annuale (6,4 milioni), dà in comodato d’uso il Teatro. La Fondazione Cariplo dà 6,2 milioni e ha un rappresentante.
E noi stiamo a discutere se uno Stato straniero possa far proprio il marchio della Scala per miserabili 3 milioni di euro?
La Scala dovrebbe (il condizionale è d’obbligo) essere un unicum come il Louvre nel suo campo: il Louvre non è un museo, è il Louvre, la Scala non è un teatro, è la Scala.
Faccio presente che il governo francese e l’emirato di Abu Dhabi hanno siglato un accordo della durata di trent’anni per un valore di un miliardo di euro, sia per l’uso del marchio Louvre sia per la organizzazione di mostre con la sigla del Louvre ad Abu Dhabi. E non ci sono presenze dhabensi – da quanto mi risulta – nel consiglio di amministrazione del Louvre. Per chi volesse approfondire, rimando agli articoli usciti sulla stampa mondiale nel marzo 2007 e sul sito del Louvre, con il testo dell’accordo tra i due governi.
Si presenta come un successo che siano destinati 100.000 euro per il conservatorio a cura dell’Accademia della Scala: ma stiamo scherzando?
E poi stiamo parlando non di un Paese qualsiasi, ma dell’Arabia Saudita, non esattamente un modello di democrazia, un campione dei diritti umani, dei diritti delle donne, un esempio di pluralismo religioso. Mi sembra una scelta azzeccata.
Pensate, forse, che un futuro, non auspicabile, consigliere d’amministrazione della Scala in quota Arabia Saudita non metta il becco nelle scelte di cartellone? E pensate che, forse, per piaggeria o malinteso spirito di ospitalità piano, piano, questa interferenza non venga accolta e non comprometta la libertà di scelta culturale del più importante teatro lirico del mondo?
Ma – ecco la soluzione – noi esportiamo cultura, ci dicono. Loro hanno fame della nostra cultura! Sic!
Si andrebbe a rappresentare un’opera lirica in forma di concerto. Badate: non un allestimento scenico tipico del teatro lirico, e della Scala nello specifico, ma un concerto lirico-corale che si fa dove non ci sono le possibilità di allestimento o ci sono pochi soldi. Come nei teatri di provincia.
Abbiamo appena finto di dimenticare l’acquisto di spettacoli di Salisburgo (operazione che non serviva alla Scala ma serviva solo a pareggiare i conti del Festival di Salisburgo), ma che adesso svendano la Scala per due peperoni e un cocomero, ci sembra troppo.
Paolino Casamari
Osservazione ormai i teatri di provincia hanno sede nelle città italiane più popolose….