Da quel momento nulla è più come prima: ”Era sempre propenso a prendere ogni cosa con disinvoltura, a credere al peggio solo quando il peggio era arrivato, a non farsi preoccupazioni per il futuro, neanche quando si presentava minaccioso” scrive Franz Kafka all’inizio de “Il processo”, allorquando prende l’avvio una situazione tanto drammatica, quanto incomprensibile, destinata a concludersi tragicamente.
Inaspettatamente il coronavirus e le circostanze che si sono presentate ci hanno posto di fronte ad un muro che sembra precludere ogni possibilità di proseguire.
“In tutti i drammi […] viene il momento fatale, il momento della svolta, quello di una sciagura improvvisa, o di una rivelazione, quando all’improvviso tutto cambia, e in un lampo si capisce ogni cosa: sta entrando acqua! Ora tutto è diverso, il viaggio che sembrava senza storia diventa l’ultimo viaggio, i gesti che facevamo da tranquilli marinai diventano gli ultimi gesti, il porto di Casablanca verso il quale stavamo pigramente navigando […] si trasforma nel porto irraggiungibile, dove non approderemo mai”, queste le angosciose considerazioni di Piero Ottone nell’autobiografica esperienza descritta in “Naufragio”, drammatico resoconto della perdita di una grande parte di sé, l’amatissima barca a vela.
Si può essere sopraffatti dalla disperazione, rassegnarsi passivamente: “La morte è la prima notte di quiete, perché si dorme senza sogni” dice Alain Delon protagonista de “La prima notte di quiete”, magnifico film del 1972 di Valerio Zurlini, oppure si può reagire, e l’epilogo può essere diverso, se di fronte all’incubo che lascia sgomenti, che sembra escludere ogni possibilità di padroneggiare la situazione, ci si ferma a riflettere su di sé, sui propri casi, per difficili che appaiano, su ciò che siamo stati, sulle radici e gli antefatti del dramma che è deflagrato.
Si tratta di ricollocare nella giusta prospettiva eventi, ricordi, relazioni, errori, attribuendo ad ogni episodio il significato che, magari sfuggito nel mentre lo si viveva, può recuperarsi a distanza di tempo.
“Non cerco giustificazioni – è sempre Piero Ottone che parla – ho perso la barca […] se avessi fatto un’altra rotta, se fossi stato lontano dalla terraferma, non sarebbe successo. Questo è tutto”: la riflessione autobiografica, a distanza di tempo, aiuta come meglio non si potrebbe a mettere ordine anche nelle esperienze più tristi ed angosciose, giungendo alla serenità che discende dall’essersi fatta una ragione logica di quanto è accaduto, per amara che sia.
Non sempre, però, si è capaci di un’analisi tanto lucida e dura, ma è necessario scavare nella memoria, aiutati anche dagli oggetti che ci circondano, ciascuno dei quali, al pari di noi, ha una sua storia, che con la nostra si intreccia.
Nulla come gli oggetti può rammentare, ma soltanto a noi che ne conosciamo la storia, eventi e fasi della nostra vita, interessi, passioni, viaggi, relazioni con persone che nella nostra vita sono state importanti pur essendone –in un modo o nell’altro- uscite.
“Il distacco dagli oggetti che si amano e la separazione dalla vita corrono parallelamente […] l’archeologo ed il collezionista riescono a far parlare gli oggetti della loro storia, delle traversie vissute, dei tanti passaggi di mano”: così rileva acutamente lo psichiatra Giovanni Starace, in “Gli oggetti e la vita. Riflessioni di un rigattiere dell’anima sulle cose possedute, le emozioni, la memoria”, opera essenziale per comprendere i nostri rapporti con le cose.
Non minore rilevanza presentano le fotografie, ed è incredibile come esse, a distanza di tempo, rivelino dettagli, raccontino storie, inimmaginabili al tempo dello scatto: espressioni che valgono presagi, momenti fissati per sempre mentre noi, invece, abbiamo proseguito ineluttabilmente il nostro cammino.
E gli oggetti, nuovamente, che – magari anche non deliberatamente – compaiono nelle fotografie, ne sono lo sfondo od il dettaglio, solo a distanza di tempo acquistano sovente un ruolo decodificabile alla luce delle prospettive che il tempo trascorso concede a chi sa coglierle.
Rivivere il momento rispetto al quale il tempo è stato fermato dallo scatto dell’otturatore può aiutare a riflettere sul presente, consentendo di leggere le testimonianze e di sistematizzare i ricordi e le emozioni che essi suscitano, interpretandole stabilendo correlazioni mai colte prima, guardando al passato in funzione del presente.
Scomporre e ricomporre il nostro passato porta al bisogno di fissare le inedite trame che iniziano ad intravedersi, vivendole in un modo diverso.
È appassionante riappropriarsi della propria storia, e questa è l’essenza della scrittura autobiografica, che riveste una grande importanza, non solo come genere letterario, ma soprattutto quale strumento di ricerca all’interno di noi stessi, volto alla riorganizzazione del nostro passato ‘rivisitato’.
Parlare di sé implica la ricerca di ciò che di noi è rimasto nascosto. La scrittura è, infatti, un atto creativo che plasma la realtà per farne ‘altro’, qualcosa da leggere dall’esterno.
Scrivendo di sé affiora il passato, anche ciò che non abbiamo fatto, e magari sarebbe stato opportuno fare: ma questo, purtroppo, lo si coglie soltanto ‘dopo’.
Se si è capaci di scrivere della propria vita muta il modo di pensare, di sentire e di vedere il presente, muta la considerazione di sé e del proprio rapporto con gli eventi.
Ed ora tutti abbiamo bisogno di capitalizzare il meglio che c’è in noi e intorno a noi. Di far crollare i muri che separano e costruire ponti che mettono in comunicazione. Di abbandonare vecchi schemi per abbracciarne nuovi.
Maria Martello
Formatrice alla Mediazione per la risoluzione dei conflitti secondo il modello umanistico-filosofico da lei ideato, ha insegnato Psicologia dei rapporti interpersonali presso l’Università Cà Foscari, già Giudice on. Presso il Tribunale per i minorenni e la Corte d’Appello di Milano, autrice tra gli altri del volume “La formazione del mediatore” ed. Utet e “Mediatore di successo” ed. Giuffrè
(venerdì 15 maggio 2020)