Se non fosse un personaggio tragico, essenzialmente pericoloso per la sanità mentale ed economica del globo, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump sarebbe fondamentalmente un personaggio pop, a metà tra un cartone animato e un personaggio alla Grande Lebowski. Insomma, un baùscia diremmo a Milano.
Perché pop? Perché si ingozza di hamburger (il fast food è il cibo pop per eccellenza); perché è paffuto e rissoso come Taz, il Diavolo della Tasmania (l’arrogante, attaccabrighe personaggio dei cartoni animati Looney Tunes); perché è straricco come Paperon de’ Paperoni (i rubinetti d’oro sono la sua passione); perché è grossolano e illetterato come Li’l Abner (le sue gaffe con la Regina d’Inghilterra e i suoi strafalcioni grammaticali gli valgono la cittadinanza onoraria della comunità a fumetti degli Hillbillies). Peccato però che, se una mattina si sveglia, che so, con un’iperacidità e bruciori allo stomaco peggiori del solito, abbia il potere di scatenare una guerra nucleare (il film Il dottor Stranamore di Stanley Kubrick, insegna).
La visione di The Donald in versione pop, mi è venuta in mente dopo aver letto un libro trovato sotto l’albero di Natale, un libro che-non-c’è, nel senso che non si può comprare, ma solo ricevere in regalo, perché il giornalista che l’ha scritto (Claudio Castellacci) lo ha fatto stampare in sole cento (rarefatte) copie numerate, come dono per gli amici. Il titolo: Los Angeles: alle radici della cultura pop. Si tratta di un viaggio a ritroso nel tempo in cui ci si rende conto che le nostre attuali radici culturali affondano, ormai non più, nel Rinascimento e dintorni, bensì nella cultura pop mainstream nata, allevata e cresciuta in California, e più precisamente a Los Angeles, con cui, ogni giorno, conviviamo, magari senza accorgercene.
A dover fare i conti con il pop furono anche personaggi iconici della “cultura alta” come lo scrittore premio Nobel Thomas Mann, il drammaturgo Bertolt Brecht, i musicisti Arnold Schoenberg e Igor Stravinskij, il filosofo Theodor Adorno, scappati dalla Germania hitleriana e accolti a Los Angeles, divenuta la meta di elezione della più grande diaspora culturale del Novecento. La scelta della “crema” intellettuale tedesca di rifugiarsi nella capitale del pop fu dovuta all’industria dello show business, del cinema – fino ad allora snobbata da quasi tutti loro – l’unica disponibile a firmare contratti di lavoro che permettessero l’ingresso legale negli Stati Uniti.
Il datore di lavoro più celebre e prodigo fu il re del pop, Walt Disney, che all’epoca stava producendo il film a episodi Fantasia. Fra coloro che vi lavorarono ricordiamo l’animatore Oskar Fischinger e il musicista Igor Stravinskij le cui musiche accompagneranno le immagini del quarto episodio, La sagra della primavera.
Sfogliando il libro si scopre persino come, a Los Angeles, pop e scienza vadano da sempre a braccetto. Prendi Malibu, l’enclave sull’oceano nota alle cronache mondane come l’esclusivo buen retiro di ricchi e famosi: qui fu messa a punto una delle più rivoluzionarie scoperte del Novecento – il Laser – nella sede del laboratorio scientifico (tuttora attivo) voluto e finanziato dall’eclettico e visionario imprenditore, regista, aviatore e produttore cinematografico Howard Hughes. Un personaggio più che pop, il cui nome è, di solito, legato non tanto alla ricerca scientifica, bensì alle cronache rosa in celluloide. Fu lui a lanciare – in Il mio corpo ti scalderà, del 1943, una pellicola western dal tone osé per l’epoca – l’allora ventiduenne bombshell del cinema hollywoodiano Jane Russell.
Non è un caso quindi che la California in generale, e Los Angeles in particolare, grazie a questo retroterra scientifico e tecnologico, sia stata, fra l’altro, la culla dell’Età dell’Oro della fantascienza, e tuttora sia fonte primaria di ispirazione per generazioni di scrittori di quel genere letterario molto pop che ha regalato al cinema spunti infiniti. Un luogo dove futuri immaginari si sono trasformati in realtà del presente o, comunque, sia verosimile ambientarci progetti utopici – sociopolitici, sessuali, ideologici, libertari, tecno o controculturali – così come catastrofi ecologiche o balorde società distopiche. Vedi il film cult Blade Runner.
Già, perché Los Angeles – a differenza di New York, sempre uguale a se stessa – è una realtà malleabile a secondo del momento, dell’ispirazione, della vena ottimista o pessimista di chi scrive, dipinge, gira film.
Città del futuro e del passato, l’aveva definita la scrittrice A.M. Homes, «città dove il sogno americano continua a prosperare, una mecca mitica, un epicentro per visionari, romantici e sognatori. Città del ventunesimo secolo sospesa all’estremo limite del selvaggio West dove si fabbricano speranze e desideri che poi ti vengono consegnati come fossero tuoi. Los Angeles è forse la cosa più simile alla terra promessa di cui l’America disponga. Questa è la città dove la realtà si trasforma in fantasia e la fantasia diventa realtà».
Franco Cologni
(giovedì 2 gennaio 2020)
Auguriamoci che le fantasie del Presidente non diventino realtà.
New York è una città splendida, multietnica, piena di mostre, colorata e offre da ogni parte un panorama incredibile. L’integrazione pare avvenuta guardando a tutti coloro che lavorano nei bar, negozi, ristoranti, cantieri ( questi ultimi sono tantissimi). E pare strano che una città così incredibili abbia come Presidente un Pupazzo Pazzo!