Paolo Scaroni rientra nel grande gioco? Il presidente del Milan sarebbe stato indicato da Forza Italia come nuovo dominus della politica energetica italiana nei negoziati per la formazione del nuovo governo presieduto da Giorgia Meloni. Più della carica formale – ministro della Transizione energetica, dello Sviluppo economico o di un neonato ministero o commissariato dell’Energia – sarebbe il curriculum (ad di Enel e di Eni tra il 2001 e il 2014) a collocare Scaroni in posizione oggettivamente sovraordinata rispetto a coloro i quali, nel 2023, verranno chiamati a dirigere Eni, Enel Terna e Snam.
Certo, l’esito positivo dell’iniziativa forzista, ovviamente, non è scontato: l’energia costituisce oggi il campo più delicato dell’azione di governo, tali e tante sono le implicazioni geopolitiche ed economiche. Nell’attesa, il navigatissimo Scaroni non commenta le indiscrezioni sul suo possibile futuro governativo, e tuttavia interviene senza pause, con comparsate televisive e interviste sui giornali, su gas, petrolio ed energia elettrica. Come se fosse.
Ora, al di là delle alchimie politiche inevitabili nella formazione del prossimo come dei passati governi, quest’idea berlusconiana merita attenzione alla luce degli storici orientamenti industrial-commerciali di Scaroni e del suo consolidato network relazionale.
Di tale network relazionale si sa parecchio. Esso fa perno sul power broker1 Luigi Bisignani che estende i suoi tentacoli da Gianni Letta a Claudio Costamagna e, per via indiretta e preterintenzionale, a Massimo D’Alema e Giuseppe Guzzetti. La circostanza che Bisignani abbia scritto articoli di critica forsennata al premier uscente, Mario Draghi, verso il quale, invece, Scaroni ha sempre affettato una privata confidenza, non segnala tanto una reale divergenza tra i due quanto un gioco delle parti nel quale il power broker esercita la sua captatio benevolentiae del centro-destra per conquistare potere di influenza per sé e per i suoi amici.
Più interessanti, invece, sono gli orientamenti industriali e commerciali. Per cominciare, Scaroni non ha mai nascosto il suo scetticismo sul “gretismo” imperante a sinistra. Le fonti rinnovabili restano per lui un complemento delle fonti fossili, destinato, concede, a un futuro grande ma remoto. In questo, Scaroni è in piena sintonia con il centro-destra. A differenza di altri manager bisignaneschi come Fulvio Conti, non si è mai speso per il nucleare. E non tanto perché nutra riserve ambientaliste quanto perché, pragmaticamente, ritiene troppo difficile tornarci in Italia. Scaroni, dunque, è intimamente conservatore sulle politiche industriali. D’altra parte, tale è anche sulle politiche regolatorie. Difese per anni il controllo monopolistico di Eni su Snam fino a quando il governo Monti non lo obbligò a vendere e a quel punto, con una perfetta giravolta, si intestò l’operazione in nome della concorrenza.
Questa mescolanza di conservatorismo manageriale e cinismo politico Scaroni l’ha manifestata anche e soprattutto nei rapporti con la Russia di Putin. Non si può dimenticare che Berlusconi promosse Scaroni dall’Enel all’Eni nella primavera del 2005 per avere un manager di fiducia negli affari in gestazione con l’”amico Vladimir”.
Il primo fu l’affaire Mentasti. Lo racconta Paolo Guzzanti, giornalista di rango, senatore di Forza Italia e presidente della Commissione Mitrokhin, nella sua biografia di Berlusconi. Fin dal 2003 i capi di Gazprom pretendevano che l’Eni retrocedesse 3 miliardi di metri cubi del gas che aveva comprato dalla medesima Gazprom a una società di comodo controllata dalla Centrex di Vienna per poter poi rivendere questo gas ai clienti finali italiani. Il giochetto veniva giustificato con gli orientamenti della Commissione Ue che apriva le porte del mercato europeo anche ai fornitori internazionali. Un terzo del capitale di Centrex apparteneva a un italiano, Bruno Mentasti-Granelli, che aveva venduto a Nestlé l’acqua minerale San Pellegrino ed era un noto sodale di Berlusconi. Del tutto digiuno di petrolio e gas, Mentasti era in partnership con Gazprom e alcuni suoi dirigenti, schermati da società svizzere. L’allora ad dell’Eni, Vittorio Mincato, oppose resistenza benché i russi facessero apertamente capire che su Mentasti convergevano Putin e Berlusconi. Non si fidava. Alla fine, poco prima delle nomine nelle grandi società a partecipazione statale, Mincato lasciò firmare a un suo dirigente un memorandum of understanding 2 con la riserva mentale di rinegoziarne i termini una volta ottenuta la riconferma. Berlusconi fiutò la manovra e silurò Mincato sostituendolo con Scaroni. Che pochi giorni dopo firmò il contratto. Senonché qualche giornale ne scrisse, sia pure in breve. E allora i consiglieri Alberto Clò, già ministro dell’Industria nel governo Dini e prodiano di ferro, e Dario Fruscio, leghista per bene poi fatto fuori da Umberto Bossi per questa opposizione, pretesero che dell’ affaire fosse investito il consiglio di amministrazione e il collegio sindacale, presieduto allora dal tremontiano Paolo Andrea Colombo, oggi vicepresidente di Intesa Sanpaolo. Emersero fieri dubbi sulla convenienza di quell’accordo per Eni e qui Scaroni dimostrò la sua veloce disinvoltura: si fece dire di no dall’Antitrust e così potè tornare da Gazprom per ridiscutere tutto. Nel frattempo, il centro-destra stava perdendo consensi e dopo il 2006, con Prodi di nuovo al governo, l’inossidabile Scaroni si accordò con Gazprom per retrocedere le quantità di gas pattuite alle maggiori ex municipalizzate.
Ma Prodi durò poco. E così Scaroni potè tornare berlusconiano, pronto ai servizi richiesti dall’ “amico Vladimir”. A quel tempo, il Cremlino aveva ordinato il break up 3 della Yukos, il gigante petrolifero di Mikhail Khodorkovsky, l’oligarca ribelle che Putin aveva mandato in galera per presunti reati fiscali. Serviva un portage 4 di alcuni rilevantissimi asset a favore di Gazprom al fine di evitarle cause negli Usa dove l’ex oligarca aveva quotato le sue attività. Chi lo offre? L’Eni., raccontando alla politica italiana che per tale via Eni avrebbe avuto accesso alle risorse minerarie russe. Un colpo che poteva ben giustificare la commissione di 45 milioni di dollari lasciata senza un plausibile perché a un oligarchetto legato a Gazprom, tale Berioskin.
Ma l’operazione più delicata e compromettente Scaroni la tenta con il progetto South Stream, una joint-venture Eni-Gazprom per trasportare il gas russo nell’Europa meridionale attraverso il Mar Nero. Il fugace governo Prodi aveva avviato uno studio di fattibilità a seguito dell’accordo Gazprom-ex municipalizzate. In verità, il progetto apparve ben presto assai oneroso: oltre 20 miliardi di investimento. Ma Berlusconi, una volta tornato al potere nel 2008, fece di tutto per farlo decollare. Nel luglio 2009 era già pronto a firmare l’accordo definitivo con Putin nel corso della sua visita in Russia. Mancava solo il parere formale dell’Eni. Ma ancora una volta il Consiglio di amministrazione dell’Eni, animato da Clò, Colombo e Marco Reboa si mise di traverso, forte delle riserve manifestate anche dal top management, a partire da Claudio Descalzi (vedi “Lo Stato parallelo” di Andrea Greco e Giuseppe Oddo). Scaroni mise in gioco tutto il suo peso, spiegando che con il South Stream la Russia avrebbe potuto aggirare l’Ucraina, eterna fonte di contenziosi per Mosca. E però questo filo diretto Eni-Gazprom era esattamente quanto rifiutavano i critici che temevano un aumento della dipendenza dal Cremlino. Dalla loro i critici avevano la Ue e gli Usa che sostenevano il progetto Nabucco in nome della diversificazione degli approvvigionamenti. Infatti, il progetto Nabucco, attraverso il Mar Caspio, il Caucaso e la Turchia, avrebbe potuto portare nell’Europa meridionale il gas dell’Asia centrale ex sovietica. Scaroni fu così costretto a un nuovo studio di fattibilità. In seguito, l’Eni alleggerì la sua partecipazione. Ma il progetto restò sul tavolo anche dopo le elezioni del 2013 che portarono ai governi Letta e poi Renzi. Fu con l’invasione della Crimea che le pressioni della Ue divennero insostenibili e Renzi, in un primo tempo favorevole al South Stream, lasciò che il progetto si arenasse. D’altra parte, l’Eni non più scaroniana l’aveva già declassato a investimento puramente finanziario e, come tale, tutto da verificare.
Il racconto di questi avvenimenti è rintracciabile senza difficoltà nei due libri che ho citato, oltre che presso altre fonti aperte. Eppure, sembra essere stato dimenticato dai giornalisti che si fanno spiegare la geopolitica dal top manager, lo stesso che aveva voluto, per la gioia di Gazprom, la proroga al 2035 dei vecchi contratti take or pay.5 Una proroga che era stata negoziata dal braccio destro di Scaroni, l’allora giovane Marco Alverà che, ricollocato poi dal network scaroniano alla guida della Snam, non investirà più in rigassificatori e stoccaggi, che costituiscono la ragion d’essere dell’azienda, ma inseguirà il mito dell’idrogeno. Con i risultati che stiamo tutti vedendo.
La domanda è: che cosa ne sa e che cosa ne pensa il premier in pectore? E che reazione avrebbero Washington e Bruxelles, che conoscono bene questo passato prossimo, se la politica energetica italiana fosse affidata all’amico dell’amico di Putin?
Devil
(venerdì 14 ottobre 2022)
N.d.R:
1 mediatore politico
2 sigla MoU, memorandum d’intesa
3 lo scioglimento con la dispersione
4 Un portage è un’operazione in cui i titoli di una società vengono ceduti ad un terzo ad un determinato prezzo con un accordo di riacquisto ad un data futura e ad un prezzo predeterminato
5 Take or pay: clausola inclusa nei contratti di approvvigionamento del gas naturale, ai sensi della quale l’acquirente è tenuto a corrispondere comunque, interamente o parzialmente, il prezzo contrattuale di una quantità minima di gas prevista dal contratto, anche nell’eventualità che non ritiri il gas.
Molto interessante