Gli esempi del passato non definiscono l’Italia come un esempio di stato di diritto. Per le famiglie delle quasi duemila vittime e i Comuni investiti dalla frana del Vajont nel 1963, ci sono voluti quarant’anni per definire i risarcimenti, che nel 2000 furono suddivisi per il 33% ciascuno tra Enel, Montedison e Stato italiano. Prima del disastro, fu un solo giornale (l’Unità) e una sola giornalista (Tina Merlin) a sollevare dubbi e perplessità ed a indicare i pericoli della diga e del monte Toc. Anche dopo la tragedia, i giornaloni (e famosi giornalisti) scrissero di “evento naturale imprevedibile”. Per questo, per la lunghezza dei procedimenti giudiziari, davanti alla tragedia delle vittime del Ponte Morandi, scatta la “giustizia politica”: non si aspetta che i tribunali decidano le eventuali colpe e responsabilità dell’azienda concessionaria e la eventuale insufficiente vigilanza degli organi pubblici preposti a controllare lo stato di manutenzione e gli investimenti per la sicurezza. Scatta la sentenza politica, discrezionale e arbitraria: è il governo che decide le colpe e le responsabilità, non è la magistratura, attraverso i processi. E l’opinione pubblica, che diffida della magistratura, sposa il giudizio politico, sommario, senza rispetto per le forme e la sostanza della separazione di poteri: non sono i tribunali a dichiarare i colpevoli, è l’opinione pubblica interpretata dall’”avvocato del popolo”, che assurge a sovrano, senza altri poteri sopra di lui.. “Gli elettori chiedono giustizia, bisogna estromettere i Benetton, ma non sappiamo quanto costa l’operazione” dice, candido candido, il viceministro 5S Cancellieri. Conte, giudice supremo e interprete unico della collera popolare, aggiunge che “ha vinto il rispetto della memoria delle 43 vittime del crollo del Ponte Morandi”. Il problema per il Presidente del Consiglio e per il governo non è quello che la magistratura, inquirente e giudicante, accerti nel più breve tempo possibile le responsabilità. Conte, Casalino, Crimi, con il consenso del PD, sono giudici ed esecutori della sentenza. Così si scambia uno stato di diritto con l’arbitrio, l’abuso discrezionale del potere politico E secondo qualche cretino le mosse del governo Conte sono il frutto della cultura dei comunisti.
Nessuno degli attuali protagonisti della vita politica italiana può lontanamente paragonarsi o essere paragonato ai comunisti italiani. Leggo sciocchezze colossali, per cui, secondo il responsabile economico del PD, i riformisti sono “per il meno peggio”. Giustamente il senatore Nannicini risponde che i riformisti sono per il “meglio possibile”. Nessun riformista è contrario al fatto che lo Stato gestisca alcune strutture essenziali, come i trasporti e le comunicazioni, anzi. Il problema è come lo fa e con quali competenze, visto che lo Stato italiano, nella sua prima e fondamentale funzione, come regolatore della economia e come controllore delle concessioni, non dimostra di essere all’altezza del compito. E come scrive in un bellissimo articolo Christian Rocca su “Linkiesta”: “Tutto questo mentre il leader – che Rocco Casalino riesce a far tratteggiare sui giornali e in televisione come Winston Churchill – combinava quel pasticcio sulle Autostrade che pronti-via costerà circa quattro miliardi cash agli italiani, più la presa in carica di dieci miliardi di debiti pregressi, più l’onere degli investimenti futuri, e il tutto mantenendo i Benetton come soci, con gli imperituri elogi del Partito democratico, in primis quelli del ministro dell’area populista Peppe Provenzano, il quale essendo di Caltanissetta dovrebbe conoscere la destrezza dello Stato nel gestire l’A19, l’autostrada Palermo-Catania dove nel 2015 (10 aprile 2015, n.d.r.) per noncuranza dell’Anas è crollato un ponte, il viadotto Himera, che ha spezzato la Sicilia in due e ancora non è stato ristrutturato”.
Ora, le vicende di questi giorni, questo modo di procedere “giustizialista” appartengono alla cultura politica del dopo 1992 e a quella stessa “sinistra” che negli anni novanta sposò interamente la logica delle “privatizzazioni” e poi oggi si adegua ad uno “stato venezuelano” che, con il risparmio postale degli italiani o con ulteriori debiti pubblici, compra od espropria pezzi dell’economia (Alitalia, Ilva, Autostrade). Allora era la corsa alle privatizzazioni; tutto, persino gli enti lirici, dovevano essere privatizzati, (legge Dini-Veltroni con il concorso poi della Melandri) con il risultato che, oggi più di prima, sono gli enti pubblici a finanziare i teatri lirici, ma si finge che siano “enti di diritto privato”.
“Privato è bello” era lo slogan che anticipava e poi accompagnava e seguiva la campagna cosiddetta di “Mani pulite”. Fu la svendita che impressionò: ci fu l’assalto degli oligarchi italiani, a mò dei russi, alle aziende e alle banche pubbliche. L’Alfa Romeo non si vendette alla Ford, ma venne regalata alla Fiat. Non si vendette l’Alitalia, ma le Autostrade: si noti che fra il 2004 e il 2019 Atlantia ha distribuito ai propri soci, dividendi per un importo di quasi 11 miliardi, rivalutato al valore monetario corrente. Per esempio la Fondazione Cassa di Risparmio di Torino (socia di Atlantia con il 5%) in quegli anni ha avuto circa mezzo miliardo di utili da questo investimento.
Sarebbe istruttivo fare la storia degli ultimi trent’anni, quando il combinato mediatico-giudiziario ha fatto fuori le istituzioni rappresentative ed ha dato campo libero ai poteri economici, forti della abolizione dei partiti, ma soprattutto del ruolo della politica. In questa demolizione della politica, dello Stato, per cui si è buttato via il bambino con l’acqua sporca, ci sono dentro tutti, PdS, Pd, Ulivo, Popolo della Libertà, Lega, Fratelli d’Italia, Forza Italia e, buon ultimi, ma prodotto e produttori della demonizzazione della politica, le 5S. L’Iri di Prodi dà il via alle vendite; il governo D’Alema è in carica quando viene venduta l’azienda Autostrade dall’Iri; Berlusconi firma concessioni molto generose; Piero Gnudi sovrintende alle privatizzazioni dal 1997 al 1999 e poi fa il presidente ed amministratore delegato dell’Iri dal 1999 al 2000 e il presidente del comitato dei liquidatori dell’Iri dal 2000 al 2002; Gian Maria Gros-Pietro dal 1997 all’autunno 1999 è presidente dell’Iri, dal 1999 al 2002 è presidente dell’Eni e (guarda gli scherzi del destino) fa il presidente di Atlantia dal 2002 al 2010.
Ed è una pura coincidenza che, oggi, Gian Maria Gros-Pietro sia presidente del comitato scientifico e Piero Gnudi sia il presidente di Nòmisma, la società creata nel 1981 da Romano Prodi e finanziata da Banca nazionale del lavoro (banca allora pubblica, del Ministero del Tesoro), oggi BNP Paribas.
Sarà bello vedere che nomine faranno nella “società che vede lo Stato al centro di una nuova compagine azionaria”, come dice Zingaretti. E con questo si chiude il cerchio, si ritorna daccapo.
Paolino Casamari
(lunedì 20 luglio 2020)