C’era una volta il Mito Americano. Un mito che, in forme diverse, ha pervaso il Novecento e il nuovo Millennio in gran parte del pianeta. Già, “c’era una volta”, perché oggi, proprio mentre sto scrivendo, va in scena, in diretta televisiva mondiale, un duplice spettacolo: il funerale di quel mito, conseguenza diretta dei comportamenti molto discutibili tenuti dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump, e allo stesso tempo il tentativo del Paese di ritrovare una dignità perduta. Parlo delle udienze per l’impeachment del suddetto presidente.
Non voglio entrare in merito alle accuse che gli sono state rivolte, mi limito a prendere atto del gesto simbolico, prima ancora che politico, che si sta dipanando nell’aula del Congresso.
E dire che il Mito Americano aveva resistito, nel tempo, a ferite gravi dimostrando la resilienza del sistema: aveva reagito all’assassinio del presidente John F. Kennedy, alle ferite sociali lasciate dalla guerra in Vietnam, non si era infranto nemmeno sul caso Watergate, a cui seguirono le clamorose dimissioni forzate del presidente Nixon, per non parlare del “tanto rumore per niente” legato alle scappatelle coniugali di Bill Clinton.
Il Mito aveva però mostrato le prime grandi crepe con l’ascesa al soglio presidenziale dell’improbabile George W. Bush, accompagnato e consigliato dalla sua anima nera, il vice Dick Cheney, che portò alla sconsiderata guerra in Iraq, e a tutto ciò che ne è conseguito in termini di terrorismo.
Poi è stato il tempo di Barack Obama, e il mondo – Mito compreso – ha tirato un sospiro di sollievo, anche se poco era cambiato sotto la superficie della ben oliata macchina amministrativo-militare-spionistica. Obama si presentava bene, sapeva parlare bene, convincere ancora meglio, ma soprattutto sapeva farsi perdonare grandi ingenuità di politica internazionale e persino l’aver spiato a man bassa leader europei suoi alleati, a partire dalla cancelliera tedesca Merkel.
L’arrivo di The Donald, come la stampa americana chiama Trump, ha scompigliato ancora una volta le carte in tavola. Il suo “Let’s Make America Great Again” – slogan che altro non è che un adattamento fondamentalista della dottrina Monroe di dorato isolazionismo – unitamente al suo carattere a dir poco bizzarro, ha fatto calare una pietra tombale sul Mito.
Certo l’America non fallirà – almeno per ora – non solo perché continua ad aver la più grande economia del mondo, ma anche grazie ad alcune carte vincenti che ancora può giocare. Prima fra tutte l’istruzione accademica. Università come Yale, Stanford e Harvard sono eccellenze uniche, centri della libertà di discussione, informazione, ricerca e studio all’avanguardia. Seconda carta, il meccanismo dei suoi processi democratici – e lo vediamo proprio dalle udienze pubbliche di cui parlavamo all’inizio – perché, fortunatamente, l’America è più del suo governo. Anche quando le politiche sbagliate riducono al lumicino la sua attrattiva, la capacità dell’America di criticare e correggere i propri errori la rende ciclicamente attraente. La celebre affermazione dell’ex Presidente Bill Clinton ne è un esempio: «There is nothing wrong in America that cannot be cured by what is right in America».
Franco Cologni
(venerdì 6 dicembre 2019)