Dalle Considerazioni finali del Governatore della Banca d’Italia, presentate lo scorso 31 maggio, emergono le croniche debolezze strutturali del nostro Paese e anche una serie di spunti da cui partire per correggerle. Tali correzioni si rendono ancor più necessarie se si considera che il contesto globale è caratterizzato da forti tensioni protezionistiche che incidono e incideranno sulla congiuntura internazionale. L’auspicio è che l’esecutivo metta da parte le tensioni post-elettorali, che allo stato attuale generano incertezza e incidono sulla fiducia, e intraprenda un percorso programmatico che permetta di rallentare il deterioramento delle prospettive economiche.
Il Consiglio direttivo della BCE ha recentemente annunciato che proseguirà nella politica monetaria espansiva che permetterà il contenimento dei tassi ufficiali, almeno per tutto il 2019, e agevolerà gli investimenti in innovazione necessari a porre l’Europa in posizione competitiva rispetto alle grandi potenze concorrenti. Il treno non va perso se si considera che i recenti dati aggregati del PIL, UK inclusa, pongono l’Europa sullo stesso piano della Cina, con una qualità della produzione maggiormente sostenibile rispetto al Paese asiatico.
L’Italia può contare su alcuni punti di forza che varrebbe la pena non disperdere. In particolare, il sistema industriale che è stato in grado di competere sui mercati internazionali grazie alla ricomposizione delle esportazioni verso produzioni meno esposte alle pressioni dei Paesi emergenti e realizzate da imprese più efficienti e più grandi (per rendere maggiormente strutturale tale qualità sarebbe opportuno che si incentivassero fenomeni di aggregazione al fine di modificare la struttura imprenditoriale del Paese caratterizzata per lo più da piccole e microimprese). Tuttavia, l’insoddisfacente qualità dei servizi pubblici, l’inadeguatezza delle infrastrutture, il basso grado di concorrenza, la distorsione connessa ai diffusi fenomeni di evasione fiscale e di corruzione, unitamente alle prevaricazioni della criminalità organizzata, creano un ambiente economico poco favorevole all’attività delle imprese e agli investimenti necessari alla crescita.
Un’ulteriore nota dolente è rappresentata dall’elevato rapporto debito/PIL che, accompagnato da una crescita economica vicina alla stagnazione, pone seri interrogativi sulla tenuta dei conti pubblici e sulla capacità del Paese di attrarre sottoscrittori del debito pubblico.
In tali condizioni, si potrebbe verificare un circolo vizioso poiché gli investitori, che sono sensibili agli orizzonti lunghi in un Paese continuamente esposto a crisi economiche e finanziarie, si convincono del crescente rischio dei loro investimenti.
Lo stesso Tesoro USA ha recentemente definito il debito pubblico italiano come «fonte cruciale di vulnerabilità» e nutre «preoccupazioni sulla sostenibilità di lungo termine delle finanze pubbliche», il che pone un serio interrogativo circa le future sottoscrizioni dei Titoli del debito pubblico se non a tassi particolarmente elevati e insostenibili.
In tali condizioni, le politiche economiche e finanziarie dell’esecutivo dovrebbero tenere conto di alcuni basilari principi di finanza pubblica: in presenza di un divario non indifferente fra costo del debito (2,8% circa) e crescita (0,1%) sono necessarie entrate superiori alle spese ancorché al netto del costo del debito (cosiddetto avanzo primario). Questo presupporrebbe un’attenta disciplina di bilancio unitamente a solide prospettive di crescita e quindi programmi in grado di stimolare l’economia.
Purtroppo, il DEF approvato dall’esecutivo lo scorso mese di aprile e le dichiarazioni circa le inevitabili minori entrate conseguenti all’introduzione dell’annunciata flat tax, sembrano indirizzarsi verso principi di finanza pubblica privi di autorevolezza nel contesto internazionale. Ed è probabilmente per questo motivo che il Tesoro USA ha messo in discussione, nella suddetta nota, «l’attuale orientamento fiscale e i proposti piani di budget» che rende vulnerabile il debito pubblico italiano.
Inoltre, come il Governatore ha sottolineato, bisogna tenere conto della criticità legata all’invecchiamento della popolazione e al calo demografico, circostanza comune a molti Paesi dell’Unione Europea ma più marcata nel nostro, che porterà a una inevitabile riduzione della capacità produttiva dell’Italia. Nei prossimi 25 anni, la popolazione di età compresa fra i 20 e i 64 anni, al netto di un afflusso dall’estero stimato di circa 4 milioni di persone, diminuirà di circa 6 milioni di unità. Tale riduzione di capacità produttiva andrebbe contrastata con aumenti «decisi nella partecipazione al lavoro e nella produttività», come dichiarato dallo stesso Governatore.
Da un lato andrebbero anche affrontate e ridotte le cause che rendono il Paese fra quelli con la più bassa percentuale di scolarizzazione in ambito UE (13% dei laureati), che conducono i migliori talenti a lasciare l’Italia (circa 120.000 gli italiani emigrati nel solo 2018) e allo stesso tempo andrebbero risolte le difficoltà che incontriamo nell’attirare lavoratori a elevata qualificazione. Dall’altro lato l’immigrazione potrebbe dare un contributo alla capacità produttiva del Paese, e non con meno impegno andrebbero affrontate le difficoltà che incontriamo nell’integrazione e nella formazione di chi proviene da altri paesi.
Quanto alla produttività, l’Italia ha risposto con ritardo alla rivoluzione tecnologica il che ha rallentato la crescita economica. Infatti, i settori che compongono l’economia digitale incidono solo per il 5% sul valore aggiunto al contrario di altri Paesi europei la cui incidenza è notevolmente superiore (media UE 6,6%).
In questo ambito il Governatore ha sottolineato la necessità di rendere sostenibile lo sviluppo economico e sociale e per non compromettere gli equilibri ambientali, il che rende indispensabili investimenti in tecnologie avanzate ed eco-compatibili.
Sul tema, la stessa UE ha sollecitato la transizione verso un’economia più circolare, i cui vantaggi consentono la riduzione della pressione sull’ambiente, più sicurezza circa la disponibilità di materie prime, l’aumento della competitività, l’impulso all’innovazione e alla crescita economica e l’incremento dell’occupazione (si stima che nell’UE grazie all’economia circolare ci saranno 580.000 nuovi posti di lavoro).
Ovviamente, ciò comporterebbe una maggiore attenzione alla formazione e alla spesa per ricerca e sviluppo che nel 2017 rappresentava lo 0,8% del PIL nel settore privato, meno della metà di quello della media dei paesi OCSE, mentre si attestava allo 0,5% in quello pubblico, per di più contando che l’incidenza sul PIL delle risorse dedicate al sistema universitario risultava poco meno dell’1%, di circa 1/3 inferiore alla media OCSE.
Insomma, ci sarebbe molto da fare per risollevare il Paese e la direzione da intraprendere non è sicuramente quella che incrementa le risorse destinate alla spesa corrente e che attribuisce la responsabilità del malessere degli italiani al nemico di turno. Occorrerebbe piuttosto una riforma coordinata del sistema fiscale che non disincentivi il lavoro, un’azione più incisiva della Pubblica Amministrazione che rimuova gli ostacoli all’iniziativa imprenditoriale, unitamente alla rivisitazione dei rapporti con i cittadini, una maggiore attenzione all’innovazione tecnologica, all’economia circolare e alla formazione a cui dedicare le risorse indispensabili e necessarie a cavalcare l’economia della conoscenza.
Paolo Costanzo
(lunedì 3 giugno 2019)