Mio padre era comunista. Non praticante, ma convinto. Lo aveva conquistato un compagno di degenza negli ultimi mesi della guerra, passati in un letto d’ospedale per via di una scheggia di bomba che gli era finita nella schiena. La scelta di campo definitiva venne con il 1946, quando si trasferì a Milano, al Convitto scuola Rinascita, che proponeva corsi di formazione per ex partigiani, reduci mutilati, orfani di guerra. Qui il babbo divenne perito ottico e si fece qualche conoscenza fra i militanti del Pci, che si portò dietro negli anni. Fu per via di qualcuno di questi amici che, nel luglio del ’72, finii a fare il fattorino di redazione all’Unità di Milano. Una sostituzione estiva. Dovevo tirare su qualche lira per poter fare le vacanze. Non ero entusiasta. Temevo di trovare un ambiente ostile. Ero uno studente capellone di estrema sinistra, un frikkettone politicizzato, e non avevo alcuna voglia di far finta di essere o apparire come un altro. Meglio che scaricare casse all’ortomercato, in ogni caso. Decisi di parlare il meno possibile, e comunque di evitare come la peste qualsiasi discussione politica. Temevo l’ostilità ma ero curioso, molto curioso.
I fattorini di redazione erano sei, distribuiti su due turni, in modo che dalle 18 alle 21 l’organico a disposizione fosse al completo. L’occupazione principale del fattorino era la raccolta, la catalogazione e la distribuzione delle agenzie. Stavamo, tutti, nella sala delle telescriventi. Si trattava di strappare dalla macchina i singoli take, in genere stampati su un rullo in doppia copia, e di sistemarli sui ganci di una bacheca di legno divisa per settori: Interni, Esteri, Cronaca, Regionali, Sport, Spettacoli, Cultura, Sindacale. Una volta raggiunto un certo numero di take si passava alla distribuzione, lasciando le agenzie nelle vaschette dei capiredattori, dei capiservizio e in qualche caso anche dei redattori. C’erano anche due telescriventi collegate con Roma, che trasmettevano i pezzi e i menabò delle pagine dalla redazione centrale di Roma. A quel tempo l’Unità usciva in diverse edizioni e veniva stampata in diverse tipografie. A Milano si stampava per tutto il nord Italia, Emilia esclusa. Linotypes e rotative stavano al piano terra del complesso di viale Fulvio Testi 75, sotto la redazione. La teletrasmissione ancora non era stata inventata, o perlomeno importata in Italia, sicché l’unico modo per comunicare fra Roma e le redazioni decentrate dell’Unità era la telescrivente. Essendo l’ultimo arrivato, e per giunta un avventizio, non mi veniva consentito accedere alle agenzie di interni ed esteri e men che meno agli articoli spediti da Roma. Il capo fattorino Vincenzo, un cinquantenne magro e nervoso, era molto diffidente nei miei confronti. Parlava poco con tutti e con me ancora meno: soltanto qualche ordine secco. Fai questo, fai quello e fallo così. Punto. Cambiò atteggiamento per via della mitica sfida mondiale di scacchi fra il sovietico Spasskij e l’americano Fischer. Un evento storico nel mondo spaccato della guerra fredda, in cui per la prima volta un americano osava attaccare il primato assoluto russo-sovietico nell’empireo scacchistico. Le agenzie cominciarono a occuparsi dell’evento con largo anticipo, soprattutto per via dei capricci di Fisher, che ogni giorno allungava la lista delle richieste agli organizzatori dell’incontro, convocato nella remotissima Reykjavik. Vincenzo andò in confusione. A che desk andavano consegnati i dispacci di questa sfida di pedoni, alfieri e regine che però di giorno in giorno somigliava a una guerra ideologica? Non chiese consiglio a nessuno, e finì che le agenzie su Spasskij e Fisher presero la via dello Sport e addirittura degli Spettacoli. Restando sulle scrivanie a prender polvere. Poi arrivarono le dichiarazioni di Breznev e Nixon, gli editoriali e le polemiche in prima pagina sui quotidiani di tutto il mondo, anche in Italia, e soprattutto si cominciò a giocare. A quel punto accadde che il severissimo, e assai temuto, Emilio Sarzi Amadè, prestigioso inviato degli Esteri nonché reporter di guerra, apparve sulla porta delle telescriventi decisamente seccato: “Porca puttana, perché non mi portate le agenzie su Spasskij e Fisher? Si può sapere che fine fanno?”. Vincenzo non c’era, sarebbe arrivato due ore dopo. Gli altri non sapevano bene che fare. Presi l’iniziativa di andare a rovistare nella vaschetta del settore Spettacoli e recuperai tutti i lanci di una settimana, oltre a quelli del giorno. Sarzi Amadè si placò. Vincenzo mi ringraziò con una smorfia riconoscente. Il compagno capo dei fattorini era un uomo di fidatissima fede del partito. Ex partigiano, aveva il culto del dovere militante. E della vigilanza, che considerava il suo vero lavoro. Un paio di decenni dopo, seppi che Garanzini era nella squadra sceltissima del servizio di sicurezza che vigilava sull’Unità e sulla sede di viale Fulvio Testi. Aveva un’arma e istruzioni dettagliate da seguire in caso di attacco fascista ma, innanzitutto, in caso di colpo di stato o di tentativi di occupazione con la forza della sede del giornale e della tipografia.
Il capo fattorino decise quindi di premiarmi. Il giorno dopo sarebbe venuto in visita al giornale Giancarlo Pajetta e per l’occasione sarebbe stato presente anche il direttore Aldo Tortorella. Avrei avuto l’onore di ricevere Pajetta e di accompagnarlo all’incontro con il direttore. Di Pajetta conoscevo la popolarità. Mia madre lo amava per le sfuriate leggendarie in Parlamento, contro missini e democristiani e per certe sue partecipazioni a Tribuna Politica in tivù, quando derideva i giornalisti del Popolo e dell’organo del Psdi L’Umanità. Conoscevo anche il figlio Luca, frequentatore come me del bar Erika e dei liceali libertari e hippies del Carducci. E questo mi faceva inconsciamente pensare al vecchio Pajetta come un comunista aperto e tollerante. Vincenzo spiegò il mio compito: “Lo ricevi alla porta, lo saluti: ‘Benvenuto compagno Pajetta’, poi lo porti all’ascensore e sali al terzo piano. Aspetti che entri nell’ufficio di Tortorella e poi torni qui”. Insomma, non proprio un lavoro di concetto. Pajetta infine arrivò. “E tu chi sei?”, fece prima ancora di ricevere il benvenuto. “Uno studente, compagno Pajetta. Sto facendo per un mese il fattorino di redazione”. “Bravo, ma tagliati un po’ i capelli. E tieni qua”. Mi passò una borsa marrone di cuoio profumatissima. Ero quasi stordito dall’odore, che si mischiava a quello del dopobarba del compagno Pajetta. In silenzio salimmo al terzo piano fino all’ufficio di Tortorella. Quando si videro fecero festa. Rimasi sull’ingresso con la borsa dal profumo rapinoso. “Ciao, grazie e lasciala giù”, disse facendomi sobbalzare. Anche il portaborse può essere un lavoro inebriante.
Ivan Berni
(domenica 22 dicembre 2019)
Che bella storia! In poche righe c’è tutta la descrizione di una semplice quotidianità interna del pici degli anni 70, in quella redazione che in quegli anni era un luogo davvero singolare del giornalismo italiano. Basti pensare alla presenza del compagno Garanzini.
Bello, anch’io lavoravo all’Unità in quel tempo. C’è un unico piccolo errore: a Milano si stampava anche l’Emilia Romagna, mentre a Roma anche la Toscana.